L’antimilitarismo ideologico, l’altra faccia del pacifismo pantofolaio
L’articolo 11 della Costituzione italiana recita letteralmente che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. A questo articolo si appellano tutti quelli che si dichiarano contro la guerra e contro l’invio delle armi in Ucraina, ma lo leggono come vogliono a proprio uso e consumo, eppure il senso è chiarissimo. E’ chiaro che la guerra non può essere sconfitta con una norma costituzionale e nemmeno uno stato potrebbe mai pensare di aderire unilateralmente al principio cristiano di porgere l’altra guancia, perché la difesa della Patria e dei valori fondanti fa parte anch’essa di un principio costituzionale. E difatti all’Articolo 52 recita : La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.”
Se la Costituzione avesse voluto ripudiare la guerra anche come strumento difensivo non ci sarebbe stato certamente l’Articolo 52. E allo stesso modo e per il medesimo ragionamento non può esistere difesa della Patria senza armi e senza esercito, che infatti viene citato dalla Costituzione con l’unica raccomandazione che si uniformi allo spirito democratico della Repubblica.
Ciò di cui parla l’articolo 11, quindi, non è la guerra in generale, ma specificatamente la guerra di aggressione. Si usciva da pochissimo da due tragiche guerre mondiali, milioni di morti, distruzione, eliminazioni etniche, genocidi e parte significativa di responsabilità andava ascritta proprio al Regno d’Italia ed al fascismo. L’Italia, come la Germania, si era resa protagonista di diverse guerre di aggressione, ad iniziare da quella di Etiopia del 1935, manifestamente coloniale, a cui, guarda un po’, erano seguite le sanzioni delle Nazioni Unite, prese poi a pretesto, tra gli altri, della successiva dichiarazione di guerra che Mussolini pronuncio nel 1940. Anche Mussolini, non dimentichiamolo, parlava di spazio vitale per gli italiani a migliaia di chilometri da casa.
Quindi è pacifico che l’Italia si impegni a non muovere guerra in violazione del diritto internazionale, ma certamente ciò non gli preclude, specialmente nel quadro di una condivisa iniziativa congiunta con altri paesi, di difendere i propri confini e/o i propri interessi di fronte all’aggressione da parte di altri paesi.
Chiarita la portata dell’articolo 11 della Costituzione ed il suo uso “furbo” da parte dei simpatizzanti di Putin (o forse sarebbe meglio definirli odiatori seriali dell’occidente e della NATO) passiamo ora a ragionare dell’altra faccia della stessa medaglia, cioè l’antimilitarismo militante ed ideologico.
Come ho detto all’inizio, se fosse possibile bandire la guerra nel mondo e per sempre con una norma giuridica, basterebbe evidentemente inserirla in tutte le costituzioni dei paesi del mondo, ma così non è. La guerra, che ci piaccia o meno, possiamo renderla meno probabile, possiamo allontanarla da noi, possiamo attenuarne gli effetti, ma non possiamo eliminarla perché nelle centinaia di paesi del mondo vi sono culture, visioni, desideri, obiettivi e situazioni molto diverse tra loro e le relative tensioni non sono sempre facilmente riconducibili a logica e razionalità, cioè non è possibile ricomporre tutte le tensioni tra paesi, alcune per diverse ragioni sfuggono a questa possiblità.
Così, come tra gli individui non è possibile, per legge, eliminare i reati contro la persona (omicidio, violenza) e contro le cose (furto e rapina), cioè non è possibile crare un paradiso in terra, così anche nei rapporti tra Stati non è realisticamente possibile eliminare la guerra.
I rapporti tra stati somimgliano ai rapporti tra gli individui. Viviamo e conviviamo in una società in base a regole sociali e giuridiche che ci hanno portato nel tempo ad evitare il più possibile il conflitto, che non è assente, ma viene generalmente risolto secondo delle regole prefissate (andando da un giudice, ad esempio o facendo ricorso amministrativo oppure attraverso il dialogo e l’accordo preventivo), ma ben sappiamo che ci sarà sempre un numero imprecisato di contenziosi e contrasti che, per una ragione o per l’altra, non possono o non riescono a trovare soluzione nelle regole sociali e giuridiche e talvolta sfociano in iniziative violente (ad iniziare dalla pretesa di farsi giustizia da soli).
Nei rapporti internazionali convivonoanziché soggetti individui, soggetti stato, distinti tra loro per culture molto diverse ed uno degli errori più comuni che facciamo é proprio quello di ragionare con le nostre categprie e la nostra mentalità. .
A noi europei, che ci sentiamo l’ombelico del mondo e il centro della democrazia avanzata, ci pare strano che possano ancora esistere stati che dell’imperialismo facciano la ragione principale della propria azione e su cui poggiano tutta la prorpria poltica estera, per non porlare del consenso interno, che di fronte a risultati spesso non all’altezza viene risollevato attraverso il vessillo del nazionalismo e prestigio internazionale.. L’europa dopo il 1945 ha compiuto un autentico miracolo creando, proprio tra i paesi tra i quali si era scatenata la tregdia di ben due guerre mondiali devastanti, un percorso di progressiva unione che è sfociata nell’Unione Europea, sino ad integrare 27 stati, uniti da una comune visione. Questi storici passi verso la pace ed il benessere, peraltro, non devono farci dimenticare che una parte molto significativa del mondo non gode di eguale pace, benessere e stabilità, e che ciò è già di per sé un fertile terreno di guerra.
Da questo ragionamento discende la logica conseguenza che è irrazionale essere genericamente contro la Guerra. Del resto chi non lo é? Anche Putin dice di esservi stato costretto e di non volerla voluta affatto, tanto da averla chiamata operazione speciale. Allo stesso modo è altrettanto irrazionale essere contro le armi, contro la produzione di armi, contro l’invio di armi, perché dove c’é guerra, ancher solo potenziale, le armi non possono mancare.
Così, stando comodamente a casa o sfilando in qualche pubblica via, è molto facile raccogliere click e consensi dicendosi contro la guerra e contro le armi, ma la guerra e le armi non si eliminano semplicemente chiudendo le caserme e smettendo di dotare gli eserciti di armi; in questo modo si darà semplicemente un vantaggio ai futuri potenziali aggressori ed ai tanti paesi imperialisti che ancora sono e purtroppo continueranno ad essere un pericolo per il mondo.
Chiudo stigmatizzando l’antimilitarismo sardo, che non si discosta molto da quello italiano. Certo non nego che la questione sarda sia profondamente specifica e che le cosiddette servitù militari suonino doppiamente beffarde, perché sono state impiantate senza il consenso consapevole dei sardi. Ma anche questo tipo di sacrosanta battaglia viene a sminuire e ad essere poco credibile se scade nel pacifismo di maniera e nell’antimilitarismo ideologico. La Sardegna può continuare ad ospitare parti dell’esercito italiano, ma sarebbe giusto che lo facesse attraverso un accordo, una piattaforma, delle compensazioni, una nuova consapevolezza, la consapevolezza di un ruolo geopolitico e strategico che oggi viene dato per scontato dall Repubblica Italiana e che invece deve essere il risultato di una scelta piena e consapevole dei sardi, compresa l’eventuale condivisione nella scelta delle aree asservite. Ma per favore, smettiamo di fare gli indipendentisti sognatori, gli antimilitaristi ideologici e i pacifisti di maniera. Ai problemi ed alle questioni i sardi devono dare delle risposte e fare delle proposte serie e realistiche. Siamo nella NATO e facciamo parte della Repubblica Italiana, possiamo certamente ricontrattare i nostro rapporto con entrambe (il federalismo vi dice qualcosa?) ma non è oggi realistico pensare ad una Sardegna fuori dall’Italia e fuori dall’Europa, perché i primi a non volerlo sono proprio i sardi ed ogni inziativa che vada in questo senso contribuisce paradossalmente a indebolire qualsiasi altro passo in avanti, alza muri invalicabili anche rispetto a ciò che i sardi hanno diritto ad ottenere per semplice applicazione dei principi costituzionali di specialità, insularità e potenziale autonomia differenziata,
Ritengo il pensiero indipendentista degnissimo, come il pacifismo, ma essi vanno poi calati in un’azione che deve tenere conto dell’ambiente circostante e della realtà del mondo ed accettare la poltica dei piccoli passi che porti comunque pian piano dei risultati che costituiscano tappe di avvicinamento ad un’ideale obiettivo finale.
In copertina foto del libro Camillo Bellieni ed Emilio Lussu. Meridionalismo, Sardismo e Antifascismo dal primo dopoguerra alla svolta autoritaria, di Alberto Monteverde e Paolo Pozzato
Apendice sui sardisti della Brigata Sassari Camillo Bellieni ed Emilio Lussu
Camillo Bellieni, nato a Sassari nel 1893, è stata una delle figure più significative del travagliato primo dopoguerra in Italia. Uomo retto e di vasta cultura, valoroso Ufficiale della Brigata “Sassari”, fu il leader del Movimento dei Combattenti in Sardegna. Tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione, seppe dare voce ai reduci della trincea che reclamavano lavoro, terre da coltivare ed un’esistenza più degna. Antifascista intransigente, si oppose al regime con forza e coraggio pagandone di persona le terribili conseguenze. Tutto un mondo di relazioni e contatti, aspirazioni e disillusioni emergono dai suoi numerosi e lucidi scritti riproposti nel libro. Sullo sfondo di tempi tumultuosi e irripetibili si stagliano figure di uomini che, nel bene e nel male, con Bellieni ebbero non solo stretti rapporti di amicizia ma di appassionata collaborazione politica. Su tutte quella complessa di Emilio Lussu, l’eroico Capitano di Un Anno sull’Altipiano, l’amico fraterno nel quale fu il primo a riconoscere doti morali non comuni e appassionato impegno civile. La forza e l’attualità del pensiero di Bellieni ma anche il personale travaglio emergono dalle pagine di questo libro dove il ricorso a documentazione di prima mano e un apparato iconografico di straordinario valore contribuiscono a rievocare una delle più complesse e meno conosciute pagine della storia recente d’Italia nel centenario della Fondazione del glorioso Partito Sardo d’Azione.