25 Aprile, l’ipocrisia dei vincitori e dei vinti
Oggi è il 25 Aprile, giornata di celebrazione della vittoria delle forze alleate dell’Esercito Cobelligerante Italiano e delle forze partigiane contro il governo della Repubblica Sociale Italiana e l’occupazione nazista. Questa ricorrenza continua ad avere un effetto divisivo perchè l’Italia e gli italiani non hanno mai voluto fare i conti con la propria storia; questa è la mia personale analisi di una ricorrenza che rispetto, ma che non riesce a generare in me quell’entusiasmo che i libri di scuola cercavano invano di trasmettermi e ciò nonostante la mia giovanile simpatia per gli Yankee e la mia appartenenza politica, sempre giovanile, al filone del cosiddetto cattolicesimo democratico, apertamente schierato sin dagli arbori con Alcide De Gasperi su posizioni nettamente antifasciste.
Il mio omonimo nonno paterno, Don Gavino Guiso Melis, fu oggetto di diversi richiami del podestà locale per il suo fermo rifiuto a presentarsi alle adunate fasciste e versare la quota di appartenenza al partito fascista, formato da quelli che lui definì pubblicamente “canaglie”. Ciononostante posso testimoniare che i suoi figli hanno spesso manifestato una certa simpatia ed indulgenza verso il fascismo. La situazione non è dissimile se scavo nei miei ricordi sul fronte materno. Mio Nonno, simpatizzante liberale e seguace delle posizioni del giornalista e storico Indro Montanelli (a me appena decenne mostrò e spiegò il famoso titolo de Il Giornale “Turatevi il naso, ma votate DC”), difendeva molte delle passate politiche del fascismo, al quale rimproverava principalmente l’errore del mortale abbraccio del nazismo e delle inaccettabili e deprecabili politiche antisemite.
Un caso? No. Anche tra i miei compagni di scuola emergeva verso il fascismo un atteggiamento indulgente e sicuramente diverso da quello rappresentato dalla storiografia ufficiale, segno dunque che nella pancia degli italiani l’esperienza fascista era stata solo rimossa, ma non compiutamente rinnegata.
Nel mio precedente articolo Il fascismo e gli italiani avevo già ampiamente argomentato sul concetto di rimozione collettiva dell’esperienza del ventennio fascista da parte degli italiani. L’enciclopedia Treccani definisce la rimozione come quel processo per il quale un soggetto rende inconsci idee, impulsi o ricordi che sarebbero altrimenti fonte di angoscia o di senso di colpa. La festa della liberazione celebrata il 25 Aprile è proposta nell’immaginario collettivo innanzitutto come festa di liberazione dal nazifascismo e ciò storicamente è fatto oggettivo e giornalisticamente corretto, ma ogni passaggio traumatico comporta semplificazioni che rischiano di condurre a false rappresentazioni della realtà.
La verità è che il fascismo, rappresentato dai vincitori come una feroce dittatura imposta solo con la violenza coercitiva, era di fatto entrato a far parte della normalità italica ed al fascismo avevano aderito (e non sempre obtorto collo) esponenti di primo piano della vita economica e culturale italiana, la medesima classe dirigente che avrebbe poi contribuito in prima linea alla costruzione della nuova Repubblica Italiana che ha fatto dell’antifascismo in Costituzione la sua imprescindibile ragione fondativa.
Il traumatico passaggio da uno stato fascista e monarchico ad uno stato democratico e repubblicano si è svolto dunque in sostanziale continuità di buona parte della classe dirigente, specie con riferimento al suo apparato burocratico e giudiziario.
Allo scarso successo e scarso appeal della ricorrenza del 25 Aprile hanno inoltre contribuito non poco le divisioni politiche emerse sin dalla costituzione nel 1943 del Comitato di Liberazione Nazionale, nel quale si fronteggiavano visioni opposte. In ballo non c’era solo la vittoria della democrazia contro la tragedia del nazifascismo, ma anche e soprattutto le scelte politiche del nuovo assetto del futuro stato italiano, rispetto al quale le visioni erano differenti, distinte, talvolta opposte. Alla seduta di fondazione del CLN parteciparono tra gli altri il partito comunista, la democrazia cristiana, il partito socialista, il partito liberale, partiti uniti esclusivamente dall’obiettivo di liberazione dall’occupante tedesco, ma che rappresentavano istanze e visioni completamente differenti che non tardarono a manifestarsi un tutta la loro gravità.
La lotta interna al CLN si tradusse subito dopo in una lotta politica per la conquista del potere della nascitura Repubblica Italiana. In questa lotta distintiva si colse da subito la differenza tra chi, soprattutto a sinistra, voleva rimarcare il ruolo predominante delle azioni partigiane e del primato delle classi operaie e pensava al capovolgimento come un’occasione propizia per instaurare in Italia un nuovo ordine ispirato alle evocative vicende della rivoluzione russa e chi invece, negli ambienti liberali e cattolici, metteva in luce il ruolo determinante dell’insostituibile contributo americano alla causa della liberazione e lavorava per la costruzione di uno stato democratico legato al blocco occidentale.
Su questa divisione profonda, che era prima che storica, era politica e ideologica, si sono nel tempo create le silenziose divisioni sul 25 aprile, una ricorrenza dalla quale è nata di fatto la nuova Repubblica Italiana, ma che, al pari del Risorgimento, ha fatto di nuovo l’Italia senza fare gli italiani, entrando sicuramente nel novero dei paesi democratici, ma senza perdere l’originario difetto di un Regno d’Italia accentratore e dirigista che, pur in una generale dinamica di crescita economica mai vista in precedenza, ha aggravato e reso sempre più intricata la cosiddetta questione meridionale, per non parlare della Sardegna, rispetto alla quale si potrebbe parlare di un vero e proprio genocidio culturale e di una vera e propria questione sarda e che avrebbe bisogno di meno assistenzialismo e più elevati livelli di autodeterminazione attraverso l’introduzione di un moderno sistema organizzativo di tipo federale, su un modello che mutui gli elementi più opportuni attingendo a quelli svizzero, tedesco e americano.