Francesco Casula: Grazia Deledda, l’italiano come mezzo di espressione della lingua sarda.
Deo gosi festo, a chentu chimbant’annos dae sa naschida,
GRATZIA DELEDDA: Sarda (e universale)
Scrive Eric Hobsbawm (lo storico britannico, autore del celebre “Age of the Estremes” – “Secolo breve”) a proposito di Gramsci: “tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”.
Mutatis mutandis, la valutazione di Hobsbawm, a mio parere, si attaglia perfettamente anche a un altro gigante sardo, Grazia Deledda: scrittrice certamente “universale” ma ben ancorata alla Sardegna, di cui racconta l’humus più profondo e la sua identità, ad iniziare da quella linguistica.
Tanto che per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.
Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo. Prima con i Savoia e poi con lo Stato unitario e ancor più con il fascismo, la lingua sarda viene infatti proibita negata criminalizzata.
Non c’è quindi da meravigliarsi che, una volta negata e proibita, gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri.
Ma – dicevo – Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, nei suoi romanzi come nei Racconti, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto nel parlare dialogico come in :”Venuto sei? – che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo – Cando est gai, andamus.
E ancora: “Venuti a parole” (‘ennios a paraulas); “Già, da appena l’aveva conosciuta” (giai apenas l’aiat connota).
Vi sono poi frasi intere in sardo: Teracas chi signoras bos cheries…serve-domestiche che pensate di essere delle signore); frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione).
Ugugualmente in sardo un bizzarro testamento (in un suo Racconto): “Deo, sutta-iscritta, Donna Maria Rughe M, viuda de Don Gavinu M, declaro de lasciare in testamentu a su nepode de sa fiza de Rosannedda R, fiza de Rosanna R e de su biadu de maridu meu, su tesoro cuadu sutta s’alveru pius mannu de su buscu de Santu Matteu, su primu chi si aghatat a deghe passos dae su riu; e chi andet a lu reguglire sa die 20 de maiu de s’annu 1878, poite si no non bi aghattat nudda, e chi preghet pro s’anima mea, e faghat narrer missas de suffragiu”.
E persino una quartina (sempre in un suo Racconto):
Tiligherta, tiligherta
mamma tua est in gherta,
babbu tou est morinde,
tiligherta baetinde…
Innumerevoli poi sono i vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce quando attengono ai nomi dei personaggi (Paska Devaddis, Bantine Fera, Berte Sirca, Zio Franziscu, Pride Fenu Tottoi,. Peppe Longu, Compare Batò, Bellia, Gabina, Nanneddu, Pedru,Gavinu, Arrosa, Peppa, Manzela, Bustianeddu);ai toponimi:Funtana ‘e litumonte di Santu Janne, Marreri, Sa Serra, alle esclamazioni (peuh).
Vi sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a leppa ((coltello a serramanico), pezzas (cinquanta centesimi), Iscavanada (schiaffo), Tanca (podere chiuso), Tilipirche (cavalletta), Cussorgia (zona adibita a pascolo), bandidare (fare il bandito), bardana (razzia), tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), roba (bestiame, ma riferito soprattutto ai greggi ovini e caprini), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).
Vi sono persino sardismi puri: come dormito (per addormentato) e entrata (per significare il “ricavato”, in un caso specifico per indicare il formaggio fresco e la ricotta prodotta giornalmente).
Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano:Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”.
Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana.
Scrive a questo proposito una valente critica sarda, Paola Pittalis: ”L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu – è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, – come il verismo – che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi”.
A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”).
Si tratta invece – secondo Paola Pitzalis – “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come « italiani regionali»”.
Prosegue la Pitzalis:”L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo italiano «verista» e «regionale» al romanzo «psicologico» e «simbolico» (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Leonardo Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, «Ichnusa», rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].