La Brigata Sassari e il Partito Sardo d’Azione
Per la prima volta, la gioventù sarda si trovava assieme, in una formazione sarda. Bisognava andare molto lontano nella sua storia per trovare un avvenimento simile. Sembravano già molti i 400 archibugieri sardi di Filippo II alla battaglia di Lepanto. E scarsi dovevano essere i presenti alle Milizie che accompagnarono Giovanni Maria Angioj nella sua marcia da Sassari a Cagliari, durante l’ultima fase della rivolta anti-feudale: non più dell’organico di un reggimento d’oggi.
La prima guerra mondiale creava questa eccezionale occasione.
Attorno ai due reggimenti di stanza a Cagliari e a Sassari, si costituirono il 151° e il 152° fanteria, che formarono la Brigata Sassari. Nella Brigata, si può dire che durante il corso della guerra passassero tutti i sardi aventi obblighi di guerra. E poiché nell’Isola fu fatta la leva in massa, alla quale si sottrassero solo i ciechi, vi passò tutta la Sardegna, nessun villaggio escluso. Per disposizione del Comando Supremo, i sardi inquadrati in altri reparti venivano man mano trasferiti alla Brigata.
I vuoti che si creavano dopo ogni combattimento, sul Carso, sull’Altipiano d’Asiago, sull’Altipiano della Bainsizza, sul Piave, e poi ancora sull’Altipiano d’Asiago e sul Piave, venivano colmati da sardi. Nella prima azione offensiva svolta dall’esercito dopo Caporetto, e che prese il nome di battaglia di Col del Rosso — Val d’Echele (Altipiano d’Asiago), le compagnie, essendosi precedentemente ridotte per le perdite subite a poche diecine d’uomini ciascuna, vennero ricomposte alla meglio in pochi giorni, col rastrellamento di tutti i sardi disseminati lungo tutto il fronte e nelle retrovie. Così ricomposta, la Brigata ruppe il fronte nemico.
Anche i cappellani e i carabinieri addetti erano sardi. I non-sardi, per disposizione del Comando Supremo, venivano assegnati ad altre brigate: solo a pochi sottufficiali, per essere stati nella Brigata fin dal primo giorno, venne concesso, per compiacenti sotterfugi dei Comandi il «privilegio» di rimanervi. Gli ufficiali non erano tutti sardi, che non erano in numero sufficiente per sostituire quelli che cadevano. Vi furono quindi, sempre, parecchi ufficiali non sardi delle più disparate regioni. Ma tutti si sardizzavano: l’abito fa il monaco. E ballavano anch’essi la danza nazionale sarda e anch’essi cantavano il duru-duru.
La Brigata si distinse subito, nelle sue prime azioni sul Carso; e fu certamente questo che suggerì al Comando Supremo il reclutamento regionale. Fu la prima brigata ad essere citata all’ordine del giorno dell ‘esercito, ed ebbe altre tre citazioni nel restante proseguo della guerra: le bandiere dei due reggimenti ebbero ognuna due medaglie d’oro al valor militare.
Tutta questa celebrità non mancava di ripercuotersi sui militari sardi delle varie formazioni delle altre armi o servizi: artiglieri, avieri, marinai, genieri sparsi un pò ‘ dappertutto. E quando la Brigata passava nei punti obbligati, per scendere a riposo o per salire in trincea o per spostarsi di fronte, i militari sardi, informati sempre dalla «voce del fante», vi accorrevano da tutte le parti, in una specie di raduno generale festivo, per salutarvi, sia pure con la sola voce e di notte, i compagni dei propri villaggi.
E la celebrità non poteva non ripercuotersi ancor maggiormente sulla popolazione dell’Isola: in realtà, la Brigata era la sua rappresentanza armata che si faceva onore. La Sardegna era dunque all’ordine del giorno della Nazione: questo non era mai avvenuto. E poiché rare erano le famiglie che non avessero uno dei loro in guerra, tutta la Sardegna partecipava della commozione e dell’orgoglio che la Brigata suscitava.
Questi soldati della Brigata, è semplice a dirsi, erano contadini e pastori. Quando le nostre compagnie passavano in riga e si faceva l’appello per mestiere, il 95% risultava di contadini e pastori.
Il restante era fatto di operai, minatori e artigiani. Gli ufficiali, pressoché tutti di complemento, erano impiegati, professionisti, giovani laureati e studenti : la piccola e media borghesia sarda. Di due soli, in tutta la Brigata, e durante tutta la guerra, ho ricordo appartenessero a quella che può chiamarsi grande borghesia, la quale, anche in Sardegna come nel resto d’Italia, riusciva facilmente a imboscare i suoi figli. La vita in comune, le privazioni, i rischi e la morte in comune dovevano necessariamente esercitare una forte influenza e creare una solidarietà fino allora sconosciuta tra i sardi. Di qui quell’unità morale, nei giorni di combattimento, per cui tutti, anche i comandati per servizi e i malati, accorrevano ai loro posti nelle compagnie e ci si muoveva assieme.
Che i soldati reclamassero il combattimento, furiosamente, anelanti all’azione, come racconta Cesare dei germani, non può onestamente dirsi. Avrebbero tutti preferito rimanere a casa propria o nelle retrovie, a riposo, ma, poiché era necessario, si muovevano. E seriamente, che taluni atti della vita non si possono compiere con leggerezza: e l’assalto è sempre un avvenimento non irrilevante; Perciò, questa loro condotta non mi è mai apparsa in contraddizione con le beffe che essi si. facevano di quanti, non avendo obblighi di leva, fossero venuti volontari ai reparti.
Rispetto invece ed espressioni riguardose per quei compagni che, in un momento difficile, su richiesta degli ufficiali, alla loro volta anch’essi richiesti, si presentavano volontari per un’azione particolarmente rischiosa: quelle azioni individuali o di piccoli gruppi, in cui i nostri pastori-cacciatori sono indubbiamente eccellenti e che compiono con consumata capacità professionale. E ho presenti non pochi episodi, in cui tutti, nelle compagnie si offrivano volontari: non appariva giusto che su pochi e non su tutti dovesse pesare un’impresa particolarmente rischiosa.
Allora, occorreva imporsi per scegliere o per fare il sorteggio.
Tale vita in comune rivelava ai combattenti sardi, ogni giorno, nozioni straordinarie che per loro erano nuove. Per la prima volta si rendevano conto che la guerra la facevano solo i contadini, i pastori, gli operai, gli artigiani. E gli altri, dov’erano! Il disprezzo per gl’imboscati raggiungeva da noi le vette più alte e, di tanto in tanto, si scopriva che dei plotoni intieri mandavano cartoline d’insulto, con firma e indicazione del reparto, a imboscati celebri di cui circolavano i nomi.
Che la guerra la si dovesse fare, non era questione. Ma perché il re l’aveva ordinata? Perché la facciamo? Questa domanda l’ho sentita migliaia di volte. I prigionieri che facevamo, austriaci, ungheresi, cechi, bosniaci, erano anch’essi tutti contadini e operai. Altra scoperta: anche dall’altra parte, la guerra la facevano i contadini e gli operai. E anche loro, perché la facevano? Altra domanda che ho sentito migliaia di volte. Di qui, quel rispetto sacro per tutti i prigionieri, che mai, in nessuna parte del mondo, deve essersi rivelato più continuo: si offriva loro pane, vino e cognac, cioccolato, tutto il possibile.
Altro fatto inaudito: per la prima volta essi avevano constatato, dal primo giorno di combattimento, e da allora sempre, che i colonnelli e i generali, considerati prima monumenti di autorità e di scienza, non capivano niente. Proprio non capivano nulla, tanto da sembrare che fossero là iper errore e che il loro mestiere fosse un altro. Certe azioni poi, scellerate, senza senso logico né militare né comune, studiate apposta per far massacrare i soldati, inutilmente, rivelavano che il generale, in realtà, era il vero nemico. Ma chi comandava l’Italia? La critica militare si spostava elementarmente sul terreno politico. Il governo del re. Nel villaggio, il sindaco, il farmacista, l’esattore, il maresciallo, erano del partito del governo del re. Nemici anche loro? Tutti nemici.
Inaudito. Il mito del re crollava.
La prima volta che il re aveva visitato la Brigata, era stata una delusione. È risaputo, noi sardi siamo di piccola statura, ma il re era ancora più piccolo. Un re così piccolo ! Questo avvenimento aveva esercitato sui sardi della Brigata un’influenza deleteria. Perdendo il prestigio fisico, il re cominciava a perdere anche quello politico, della sovranità, e finì col perderlo del tutto. Ed avvenne L’incredibile: che quando il re visitò la Brigata altre due volte, a riposo, i battaglioni accolsero l’« attenti al re!» suonato dalla cornetta del campo con mormori! e grida ostili non sufficientemente represse. Fatto inaudito per i sardi. Non pertanto vero. Re d’Aragona, di Spagna, di Sardegna e d’Italia, saltavano in aria tutti insieme e tutti in una volta.
È difficile comprendere queste cose, nel loro formarsi e nel loro esplodere, per chi non abbia vissuto la vita della Brigata. E quando un generale, divisionario, che pure era sardo anche lui, ripromettendosi morale più elevato e successi tattici, ordinò che la Brigata imparasse a cantare in coro «Cunservet Deus su Re — Viva su Regnu Sardu.» poco mancò che la Brigata non si ammutinasse. Il generale dovette rinunziare al canto, e non se ne fece mai più niente.
Tutte queste esperienze fatte lentamente, ma inesorabilmente, dai sardi della Brigata, esplosero in qualche occasione fino a rasentare l’ammutinamento. E quelle furono ore difficili.
Nei giorni di depressione maggiore, quando i morti erano troppi e bisognava ricominciare da capo una guerra che sembrava non dovesse ormai aver più fine, era sempre il richiamo alla Sardegna che rianimava tutti. Per rendere meno triste uno di questi giorni, sull’altipiano di Asiago, dopo un combattimento in cui tanti erano caduti, il comandante la Divisione, alla Brigata a riposo nel fondo di una vallata, faceva ogni pomeriggio suonare la banda. Ma pareva che la banda suonasse canti funebri, tale era il disinteresse di tutti che rimanevano sparpagliati sulle colline circostanti, a piccoli gruppi, ognuno cantando le melopee del villaggio. Per suggerimento d’un gruppo d’ufficiali, fu fatto venire d’urgenza lo spartito del ballo tradizionale sardo e, senza preavviso, la banda lo suonò. In un attimo, dalle cime, si precipitò nel fondo valle tutta la Brigata, Quattro o cinquemila uomini apparvero, stretti gli uni agli altri, esaltarsi in un trasporto di cui è difficile dire se fosse gioia o dolore.
Senza queste premesse, non si comprende il movimento dei combattenti sardi nel dopo-guerra, che dette subito vita al Partito Sardo d’Azione.
Non fu propriamente un movimento di reduci, come fu quello dei combattenti in tutta Italia.
Fin dal primo momento, fu un generale movimento popolare, sociale e politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori sardi. Perciò, in una xilografia di Mario Delitala, i quattro mori della bandiera dei combattenti, che fu poi la stessa del P.S.d’A. e che si inspirava ali ‘emblema della Sardegna, erano sostituiti da quattro lavoratori: un pastore, un contadino, un pescatore e un minatore.
Fu nell’Isola, un movimento universale, che cominciò col conquistare subito anche tutta quella gioventù che non aveva fatto a tempo a partecipare alla guerra, e creò la lotta politica, in tutti i centri, non escluso neppure il più piccolo, neppure i più sperduti stazzi della Gallura, e entrò anche nelle città. Il Partito Socialista, in trent’anni, era rimasto limitato a Carloforte, alle miniere dell’Iglesiente, ai sugherieri di Tempio, con scarsa organizzazione a Cagliari, Sassari, Nuoro. Il movimento dei combattenti era tutta l’Isola. I combattenti formarono subito, in ogni Comune, una Sezione, ma la Sezione era nello stesso tempo qualcosa come Lega e Camera del Lavoro. Tutti uniti, i combattenti di tutte le formazioni, e con essi le loro famiglie e in più gli altri, contadini, pastori, operai, artigiani, che non avevano fatto la guerra, fecero crollare subito l’organizzazione dominante di clientele elettorali che avevano dato, fino ad allora, la rappresentanza ufficiale dell’Isola, durante la Destra e la Sinistra storica.
Amministrazioni comunali messe in crisi, occupazione di terre incolte, agitazioni di coltivatori diretti, scioperi di braccianti, scioperi di pastori salariati (a nostra conoscenza, i primi che si fossero avuti in ogni paese), l’agitazione contro il baciamano residuo feudale, costituzione di cooperative agricole, ca-searie e di piccoli pastori, e di consumo, furono fatti seguitisi senza interruzione l’uno all’altro. La riforma agraria costituiva la prima istanza. Quando Giolitti, dopo gl’incidenti di Ancona, tentò levare in Sardegna battaglioni volontari per l’Albania, i combattenti si opposero: niente più guerre. E sarebbe curioso ricercare se questo atteggiamento dei combattenti sardi non influisse sull’atteggiamento del governo per un mutamento di politica verso l’Albania.
Politicamente, i dirigenti del movimento non avevano né una preparazione ideologica né un’esperienza formata, per quanto pressoché tutti quegli intellettuali che, prima della guerra, erano nel Partito Socialista, facessero ora parte del movimento, ma avevano idee abbastanza chiare sui problemi sociali e politici dell’Isola. Comprendevano altresì che un movimento politico dovesse avere una denominazione politica e un programma politico definito. Così si costituì il Partito Sardo d’Azione, che peraltro fu piuttosto sempre un movimento anziché un partito politico organizzato. Socialmente, il Partito Sardo d’Azione, era un duplicato del Partito Socialista Italiano («primo ideale è la liberazione dell’individuo da ogni forma di schiavitù ereditaria e nuova, dall’oppressione della ricchezza accumulata nelle mani di pochi» — «la loro concezione del divenire operaio e sociale è in ultima analisi socialista» — Congresso di Macomer, 1920), con in più la pregiudiziale repubblicana. Contrasti di concorrenza non ne avvennero mai, perché nelle città il Partito Socialista era molto debole e nelle grandi miniere, tutte socialiste, il Partito Sardo d’Azione non creò organizzazioni proprie per non indebolire l’organizzazione unitaria che si era fatta forte in decenni di lotta. Egualmente, il Partito Socialista si disinteressò delle piccole miniere, in cui l’influenza del P.S.d’A. eia preponderante. Nello schieramento politico generale isolano in P. S. d’A., e per le sue radicali istanze sulla riforma agraria e per la sua intransigenza istituzionale, prendeva posto più a sinistra del P. S. Questa è la ragione per cui, dopo il ’21, il Partito Comunista che per la sua debolezza organizzativa non presentava candidati alle elezioni, votava le liste del P.S d’A.
Nelle elezioni politiche del ’19, il movimento mandava quattro rappresentanti alla Camera. Nelle elezioni comunali e provinciali del ’20, oltre la metà dei comuni furono conquistati: Cagliari città dette la maggioranza assoluta solo più tardi. Nelle due circoscrizioni provinciali allora esistenti, in quella di Sassari conquistò la maggioranza; rimase in minoranza in quella di Cagliari dove il movimento era socialmente più radicale e praticava una maggiore intransigenza sociale nelle iscrizioni. Durante l’occupazione delle fabbriche nel nord d’Italia, il movimento sostenne la necessità dell’occupazione delle grandi miniere sarde, per porre in modo clamoroso il problema dello sfruttamento colonialistico dell ‘ industria sarda. Nelle elezioni del ’21 mandò ancora quattro deputati alla Camera, i quali, con un socialista, formavano una rappresentanza notevole della classe lavoratrice sarda. Oggi, con un elettorato maggiore, compreso il femminile, e con le due Camere, socialisti e comunisti (che corrispondono alle formazioni sardiste e socialiste del 1921) hanno complessivamente, nella Camera dei Deputati e nel Senato, quattro rappresentanti elettivi (non si contano i due senatori di diritto). Il che da un’idea di quanto le forze popolari fossero più estese in quel periodo. Per pareggiare le forze d’allora, dovremmo avere sette anziché quattro rappresentanti. Deficienza compensata in parte da una più solida organizzazione.
Alla Camera,, i nostri deputati votarono sempre contro tutti i governi, e dettero solo il voto di fiducia all’on. Bonomi, in seguito al conflitto, fra fascisti e forza pubblica, a Sarzana.
Il P.S.d’A., fin dalle sue origini, non dava, e a torto, che scarsa importanza alle elezioni e alle rappresentanze elettive: le lotte sociali e politiche più dirette lo interessavano maggiormente. Per cui non si ebbe mai un legame fra l’azione in Sardegna e quella in Parlamento.
Il P. S. d’A. aveva anche un giornale quotidiano, che il fascismo soppresse.
L’istanza politica dell’autonomia fu per la prima volta adottata nel 1920 e venne dopo tutte le istanze sociali. È che nel corso della lotta politica si rivelò che gran parte dei problemi sardi vanno risolti nell’Isola stessa. Ma, mentre il Partito, nell’ agitazione per la terra ai contadini si ricollegava al movimento popolare capeggiato dalla borghesia progressista della fine del secolo XVIII, di cui l’eco non si era ancora spenta in Sardegna l’istanza autonomista non si ricollegava agli Stamenti, d’impostazione aragonese, che, almeno sulla carta, durarono fino al 1847, anno in cui il re di Sardegna consenziente, la rappresentanza sarda delle città infatuate di Pio IX, di Gioberti e di Carlo Alberto, non li soppresse. Gli Stamenti non dicevano più nulla, alla generazione sarda del nostro dopoguerra, non solo perché erano di tipo feudale, ma perché essi erano già cosa morta nel XVIII secolo e non potevano essere cosa viva nel XX. La coscienza autonomistica ha origine nella coscienza che il popolo sardo sentiva nel dopoguerra, di avere la capacità di amministrarsi, per integrarsi nella vita nazionale in una forma non colonialistica. L’autonomia è stata un’istanza popolare della nostra generazione, e perciò è penetrata profonda nella coscienza del popolo. Lo Statuto speciale per la Sardegna, inserito dalla Costituente nella Carta Costituzionale della Repubblica, è prevalentemente conquista, sia pure limitata rispetto alle stesse richieste della Consulta regionale sarda costituitasi dopo la Liberazione e che aveva la rappresentanza di tutti i Partiti, del vecchio movimento dei combattenti sardi e del P. S. d’A. Esso rappresenta una conquista politica, che è patrimonio democratico popolare comune, come la Repubblica, e come la Repubblica, insopprimibile.
Il risveglio generale portato dal P.S.d’A. nell’Isola, che obbligava a trasformarsi anche tutti gli altri partiti politici, era nel suo crescente sviluppo, e stimolava la costituzione di analoghi movimenti tra i contadini del Mezzogiorno, quando nei centri industriali ed agrari del nord, si affermò il fascismo. Che esso fosse di origine industriale ed agraria, era nella coscienza e nella certezza di tutto il Partito. I fascisti sardi e i loro simpatizzanti erano d’altronde degli stessi ceti industriali e agrari contro cui il Partito era in lotta sin dal suo sorgere. I fatti tragici di Palazzo d’Accursio suscitarono la rivolta di tutto il Partito, e da quei giorni, anche in Sardegna, si ebbe la lotta violenta tra fascismo e antifascismo. Il fascismo faceva capo, attraverso la grossa borghesia, alle forze dello Stato, l’antifascismo al P. S. d’A. Il P. S. d’A. ha l’onore di avere stretto attorno a sé tutti i giovani più combattivi e di aver sempre battuto il fascismo isolano fino alla marcia su Roma. Dopo, fu a varie riprese, sopraffatto esclusivamente dalle forze dello Stato oramai diventate fasciste. Gli antifascisti arrestati a Cagliari in un sol giorno superarono il migliaio. Quattro morti e un centinaio di feriti furono le vittime di quel periodo. Ma, nel dicembre del 1925, malgrado che alcuni esponenti minori del P.S.d’A. fossero stati sedotti e passassero nel fascismo, il Partito era ancora talmente consistente da poter tenere a Macomer un congresso regionale con la rappresentanza di – quasi tutte le sue vecchie Sezioni.
I rappresentanti del Partito, contro la maggioranza dell’Aventino, sostennero la necessità dell’azione popolare e non l’attesa dell’intervento monarchico.
Il P.S.d’A. considerò sempre la marcia su Roma un colpo di stato monarchico.
Col trionfo definitivo del fascismo, finisce storicamente il P.S.d’A. Venti anni di regime di polizia, la reazione sociale, la guerra fascista hanno mutato radicalmente la vita popolare dell’Isola, più che in qualsiasi altra regione d’Italia. Perciò alla Liberazione, il P.S.d’A. non era più la continuazione del movimento dei combattenti e dell’originario P.S.d’A. E buona parte dei vecchi dirigenti, accantonando le prime istanze sociali, non ponevano che quelle politiche. Di qui i contrasti interni d’ordine sociale, e la fine del vecchio Partito, che si scisse in due partiti, uno socialista e uno repubblicano. Ma durante i Tenti anni di fascismo, i dirigenti del P.S.d’A. mantennero la loro opposizione al fascismo, e quelli che poterono rimanere in patria e quelli che furono costretti all’esilio. Il presidente regionale della gioventù del P.S.d’A., Giuseppe Zuddas, esule, morì a Montepelato in Catalogna, nella Colonna Rosselli, con i repubblicani spagnoli. Il presidente regionale dei combattenti, uno dei massimi esponenti del Partito, Dino Giacobbe, esule, combatté in Spagna, comandante di una batteria di artiglieria, nella Brigata Garibaldi. Quegli che era come il nostro ambasciatore a Roma, Francesco Fancello, ha vissuto quindici anni fra carcere e confino. Cesare Pintus, venuto a noi dal Partito Repubblicano, e che era il centro dell’attivismo clandestino in Sardegna, contrasse in carcere la malattia che lo condusse alla morte poco dopo la Liberazione. Molti sardi, trapiantatisi in Francia per ragioni di lavoro e caduti nella Brigata Garibaldi ove costituivano il reparto d’assalto, portavano l’influenza del P.S.d’A. Tanti altri sardi, oltre un migliaio, partigiani in Alta Italia, e tra cui centinaia sono caduti, sono venuti alla Resistenza col lievito rivoluzionario che avevano attinto dal P. S. d’A. Quel poco d’antifascismo attivista che si è fatto nell’ Isola, fa principalmente capo al P. S. d’A., e i suoi perseguitati politici sono stati migliaia. E di quanti rimasero nell’Isola, il più noto di tutti, Pietro Mastino, prigioniero in casa sua, fu un esempio d’intransigenza antifascista, e il suo esempio fu utile a tutti.
Politicamente, non vi è partito politico che non abbia commesso errori e non meriti critiche. Ma comunque si svolga la storia della democrazia isolana, il movimento dei combattenti sardi e il P. S. d’A. rimarranno come un grande movimento popolare di liberazione, il primo che la Sardegna abbia espresso nel corso di molti secoli.
Esso non fu ispirato né direttamente dal marxismo né dai movimenti culturali sorti in, Italia nel dopoguerra, ivi compresa Rivoluzione Liberale di Gobetti, che nel suo Manifesto pone i contadini del P.S.d’A. tra le forze che trasformeranno lo Stato nazionale. Neppure da Gramsci, che pure vedeva nel P. S. d’A. una concreta realtà socialista. Esso attingeva vita ideale dalla conoscenza del popolo sardo, essenzialmente, e a questa sua limitata esperienza è dovuto certo il suo tramonto. Ma esso rivive nelle vive forze sociali e politiche che lo hanno continuato e lo continuano,, in altra epoca e in altra forma, legato sempre alla vita della Sardegna, della Nazione e del mondo.
Ottobre 1951 Emilio Lussu
Lussu scrisse questo testo nel 51 quando ormai era finito fra i socialisti dopo la fuga dal PSdAz . Il testo é bellissimo e pieno di episodi bel descritti. Però Lussu era anche un abile falsificatore e per giustificare la sua fallimentare scelta politica sconfitta in linea di di principio nel congresso sardista arriva a sostenere che il PSdAz fosse in realtà socialista mentre ciò non é assolutamente vero. Infatti sin dalle origini il sardismo fu in antagonismo col socialismo italiano e ancora di più col comunismo . La questione ebbe dei precedenti quando Lussu soccombendo nella sua dura polemica con Carlo Rosselli si dimise da Giustizia e Libertà perché non era stata accettata la sua tesi di accentuare il socialismo di GL che era liberalsocialismo per farne un terzo partito socialista da associare al PCI e al PSI che erano stalinisti e niente affatto liberali. La stessa fissa lussiana portò alla scissione del Partito d’azione italiano e alla finale confluenza dei suoi resti lussianj nel Psi di Nenni allora stalinista. Da questa fine si salvò il PSdAz che seppe opporsi nel congresso di Cagliari e salvo la sua identità e integrità sarda e sardista.