Indipendenza e investimenti in capitale umano, questa la ricetta per il riscatto della Sardegna.
(English version in the end)
Non ricordo se conosco personalmente Gianni Carboni, ma devo dire che l’articolo nel quale mi sono imbattuto è molto interessante ed i due punti conclusivi lo sono ancora di più. Di fatto emerge che: 1) il fattore di insularità della Sardegna non è l’elemento che ostacola la crescita potendo paradossalmente divenire anche un vantaggio. Del resto la posizione geografica di altre isole con un’economia molto più dinamica sta lì a dimostrarlo ed io stesso ho considerato pubblicamente la battaglia dell’insularità in costituzione come un passo indietro nella prospettiva (una sorta di riconoscimento e auto-certificazione di inferiorità antropoligico-geografica, storicamente indimostrabile) che contribuisce a spostare su un elemento esterno (l’insularità) l’attenzione che dovrebbe invece essere orientata ai fattori che possono fattivamente concorrere ad un cambio di passo della vita economica sarda; 2) la questione dell’autonomia della Sardegna come fattore critico di successo; questa posizione l’ho sposata da tempo e ulteriormente rafforzata anche grazie ai contributi di molti autori passati e presenti, non ultimo grazie alle riflessioni, tra gli altri, di Adriano Bomboi. Lo sviluppo si gioca sul senso di responsabilità, sull’autonomia fiscale (e la conseguente ed automatica maggiore efficienza della spesa pubblica) e gli investimenti in capitale umano, come ha fatto la Repubblica di Irlanda, guarda caso un’Isola periferica, per secoli colonizzata e povera ed oggi, sempre guarda caso, ai vertici mondiali per il reddito pro-capite.
Di seguito riporto integralmente l’articolo in parola tratto da Sa Natzione
Tendenze economiche in rapporto al caso sardo.
Di Gianni Carboni (Sardegna in prospettiva).
Negli ultimi anni mi sono molto appassionato al macro tema delle economie regionali in prospettiva storica, alla loro evoluzione nel tempo ed alle attuali disuguaglianze territoriali, in modo da poter conseguentemente studiare e trovare le migliori politiche economiche possibili per superare queste criticità.
Con, ovviamente, un’attenzione particolare alla Sardegna, alla sua martoriata economia (e società), in chiave europea e “nazionale”.
Questa mia ambizione di analisi ha certamente una valenza scientifica afferente all’economia pura, ma con risvolti anche in termini di BES (Benessere equo e sostenibile) in quanto, di fatto, non esiste una società equa e sostenibile ove le disuguaglianze territoriali (in questo caso regionali ma non solo) si accentuano e si rafforzano nel tempo, anziché il contrario. Ha anche, innegabilmente, dei risvolti in termini politici e politologici, che intendo comunque affrontare con approccio scientifico economico e senza cadere in pericolosi tranelli emozionali.
Il punto di partenza del mio ragionamento può essere rappresentato da questo libro: “The Economic Development of Europe’s Regions: A Quantitative History since 1900” di Joan Ramón Rosés (London School of Economics and Political Science) e Nikolaus Wolf (Humboldt University of Berlin). Il lavoro rappresenta lo sforzo più grande, in termini di analisi economica, mai fatto finora per raffrontare le economie regionali in un arco temporale così lungo (dal 1900 al 2010) e per l’intero territorio europeo.
Ringrazio di cuore il prof. Giovanni Federico, al quale spesso e volentieri rompo le scatole per consulenze di storia economica, per avermi consigliato la lettura di questo libro così importante e così ancora poco conosciuto fra gli economisti.
Da questo libro sono estratti tutti i grafici che mostrerò nella presente analisi, così come ad esso sono ispirati molti dei ragionamenti esplicitati, ai quali ovviamente vanno ad aggiungersi alcune considerazioni del tutto personali.
Il tema è molto importante e complesso e sarebbe impossibile riuscire ad affrontarlo con un solo articolo, ma a mio avviso vale la pena introdurre giusto alcune delle tematiche affrontate dagli autori, che mi aiuteranno a far comprendere gli obiettivi concettuali che ritengo più utili in termini socio-economici ed in termini sardi.
– Stati vs Regioni.
Innanzitutto, viene confermato in modo definitivo che guardare all’Europa solo come somma di stati, ignorando le differenze territoriali presenti all’interno di ogni stato, è un grave deficit di analisi. Spesso i paesi convergono, le regioni no. Spesso le differenze regionali sono molto più marcate di quelle nazionali.
Nell’arco di così tanti anni c’è stato sicuramente un trend complessivo di crescita costante, all’interno del quale, però, molte regioni hanno avuto migliori performance in termini di reddito pro capite e di distribuzione della ricchezza, altre sono rimaste più o meno costanti e, infine, altre ancora hanno visto peggiorare la loro situazione.
In generale, si può affermare che questo fenomeno ha visto una convergenza delle regioni europee fino agli anni ’70-80, a partire dai quali la convergenza è terminata ed è iniziato un trend inverso.
– Densità della popolazione, dell’attività economica e del PIL.
In termini di impatto sul Pil pro capite, c’è ovviamente sempre da considerare l’impatto della geografia (temperatura, precipitazioni, idoneità all’agricoltura, distanza dai porti). Questo impatto è stato generalmente forte, ma muta forma ed intensità nel tempo.
Molto importanti anche i trends demografici (giovani, vecchi, occupazione femminile).
Sia la densità della popolazione (abitanti per km²) che la densità occupazionale (occupati per km²) sono aumentate nell’arco temporale preso in considerazione.
La prima è aumentata da 150 nel 1900 a 282 nel 2010, con mediana da 84 a 149 nello stesso lasso di tempo, la seconda è circa raddoppiata da 67 nel 1900 a 132 nel 2010.
Non sorprende che la densità dell’occupazione sia strettamente correlata alla densità della popolazione.
La correlazione fra densità di popolazione e densità del PIL è diminuita nel tempo. Quindi, la variazione del PIL per area, nel corso del tempo, è sempre più dovuta alla variazione del PIL pro capite e meno alla variazione della densità di popolazione.
Essere un’economia più densamente popolata, non si traduce come in passato in essere un’economia più ricca.
Inoltre, questo dimostra ampiamente come l’ossessione, in senso più che positivo, degli economisti per la produttività del lavoro, è più che giustificata.
Se, infatti, è sempre più importante la variazione del PIL pro capite rispetto alla densità di popolazione, allora è altrettanto vero che, a parità di trend demografico, riveste fondamentale importanza la quantità di PIL che ogni lavoratore riesce a produrre (ovviamente in proporzione alle ore lavorate, due facce della stessa medaglia).
– Il declino dell’agricoltura.
È evidente che il declino dell’agricoltura si è avviato non solo di pari passo all’espansione dell’industria, ma anche contestualmente ad un’eguale espansione dei servizi.
Questo trend è andato a velocità molto diverse fra diverse regioni europee.
È stato calcolato, per ogni regione, il cosiddetto quoziente di localizzazione, che rappresenta la specializzazione di una singola regione in un determinato settore, normalizzata sulla base della quota complessiva di quel settore nell’occupazione totale, per i settori agricoltura, industria e servizi. Di questo quoziente, è stato successivamente calcolato il suo coefficiente di variazione.
All’inizio del secolo, la localizzazione regionale dei settori era sostanzialmente uguale. Col passare degli anni, la localizzazione regionale del settore agricoltura risulta sempre maggiormente variabile, a differenza di quella di industria e servizi.
Ciò significa che la specializzazione regionale in agricoltura è sempre più diversa fra le regioni europee (cioè ci sono sempre meno regioni in cui si “sviluppa” tanta agricoltura).
All’inizio del periodo, tutte le regioni erano specializzate in tutti settori, in modo similare, col passare del tempo questo trend si è spaccato in due.
– Andamento del PIL pro capite regionale.
La distanza assoluta tra le regioni più povere e quelle più ricche è aumentata notevolmente nel tempo, ma le differenze sono diminuite in termini relativi). Tuttavia, la piccola ma crescente differenza tra media e mediana è indicativa di una crescente divergenza.
Vediamo inoltre come tra il 1900 e il 1950, e di nuovo tra il 1950 e il 1980, la distribuzione si sia spostata abbastanza sistematicamente a destra, con un numero crescente di regioni posizionate intorno alla mediana, ma la situazione è cambiata intorno al 1980, quando la convergenza si è indebolita e la dispersione tra le regioni ha ripreso ad aumentare.
– Spiegare la crescita economica.
Quali sono stati i fattori predominanti di questa (interrotta) convergenza, la quale ha portato, complessivamente, una crescita del PIL così importante?
Solitamente si distinguono fattori che determinano l’adeguamento di breve-medio periodo ad un livello di crescita stabile da fattori che la determinano nel medio-lungo periodo.
Partendo dal lavoro di Solow (1956), ci si aspetta che in un’economia più povera, si possa crescere più rapidamente. Questo perché il rapporto capitale/lavoro è più basso nelle regioni povere, e quindi in tali casi ci si aspetta un maggiore ritorno degli investimenti.
Chi cresceva poco all’inizio del periodo considerato, è cresciuto tanto, chi già cresceva tanto, è cresciuto di meno.
È questo il processo di convergenza in economia.
Prima della guerra, la convergenza non si è evidenziata.
Nel periodo tra il 1950 e il 1980, spesso definito “età dell’oro della crescita” (Crafts e Toniolo 1996), gran parte di questa crescita era dovuta a un processo di convergenza, in cui le regioni più povere d’Europa stavano raggiungendo quelle più ricche.
Se adottiamo una prospettiva di lungo periodo, per giustificare dei tassi di crescita così elevati, dobbiamo considerare fattori istituzionali e fattori geografici, che determinano gli incentivi a investire e adottare nuove tecnologie.
Quando si tratta di fattori geografici, è comune distinguere tra caratteristiche di prima e seconda natura. I primi sono fattori che possono essere considerati esogeni o dati “dalla natura”, come il clima (temperatura e piovosità media), la qualità del suolo (valore calorico delle colture per ettaro), accesso ai bacini carboniferi (vicinanza a strati rocciosi nell’era carbonifera) o l’ubicazione dei principali porti marittimi (distanza dal più vicino porto). Invece, la geografia della seconda natura si riferisce a fattori che derivano dall’intervento umano, in particolare l’accessibilità dei mercati, che dipende sia dalla dimensione economica delle regioni limitrofe sia dall’accesso ad esse.
Quanto hanno pesato questi fattori?
Le regioni con un buon accesso ai bacini carboniferi tendono ad avere livelli di reddito più elevati nel lungo periodo, mentre una buona qualità del suolo e temperature estreme sono associate a livelli di reddito inferiori.
Una buona accessibilità dei mercati sembra esercitare un forte effetto positivo sui livelli di reddito.
Oltre ai fattori geografici, si sono considerati anche quelli relativi al ruolo delle istituzioni.
Regioni che ospitano la capitale della propria nazione, ad esempio, hanno sempre livelli di reddito più elevati e l’appartenenza alle varie istituzioni europee ha dato un contributo positivo ai livelli di reddito.
Le regioni con un’elevata quota di occupazione in agricoltura all’inizio del periodo di analisi, tendono a crescere sistematicamente di meno e, tendenzialmente, avere una qualità del suolo superiore alla media tende a non trasformarsi in buone performance economiche.
– Classifiche regionali nel tempo.
Quali regioni hanno guadagnato rispetto ad altre e quali sono rimaste indietro?
Tra i maggiori vincitori ci sono le regioni che hanno una certa autonomia all’interno del loro paese: si tratta di causa o effetto?
Alcune regioni europee sono peggiorate, e di molto, nell’ultimo secolo.
Fondamentalmente ci sono tre gruppi di casistiche regionali:
• alcune regioni erano fra le più ricche e lo sono rimaste;
• alcune sono cresciute molto di più rispetto alla media;
• altre sono in forte declino.
– Vincitori e vinti nel tempo.
Ci sono regioni che hanno guadagnato tantissime posizioni nel ranking europeo in termini di Pil pro capite, altre, al contrario, sono scivolate nel fondo della classifica.
Da notare che nella top10 delle regioni che hanno guadagnato più posizioni nella classifica in termini di Pil pro capire, tre sono italiane.
Un altro fenomeno interessante osservato dagli autori è il seguente: le regioni che in precedenza dipendevano dal carbone e dall’industria tessile, sono cresciute di meno per via della deindustrializzazione e della maggiore concorrenza globale.
V’è sempre da considerare che, in alcune regioni della Germania, questi effetti sono causati dai fattori interni legati alla divisione fra Germania est ed ovest e/o alle guerre.
Insomma, convergenza sì, ma non per tutti.
In generale, però, si può notare che le “regioni capitali”, non hanno di che lamentarsi.
Relativamente alla quota di PIL che hanno detenuto le “regioni capitali” europee sul totale del PIL; pertanto, una sua diminuzione evidenzia convergenza e viceversa. Anche questo dato, dunque, conferma il recente fenomeno, a partire dagli ’80 in poi, che vede la convergenza regionale diminuire, che evidenzia un aumento delle diseguaglianze territoriali in Europa.
– Concentrazione spaziale.
Si è detto che c’è stata convergenza. In recente diminuzione, ma c’è stata.
Di conseguenza ci aspetteremmo una minore dispersione del PIL pro capite fra le regioni, ma così non è.
L’indicatore statistico migliore per valutare questo tipo di fenomeno è il coefficiente di variazione, detto anche convergenza sigma.
Prima cosa da notare: c’è sempre differenza fra valori inerenti alle sole regioni prese singolarmente, rispetto a quando si analizza la somma delle regioni di una nazione. Il valore della variabile convergenza-sigma è sempre più alto nelle regioni e più basso negli stati, questo significa che, quando si analizzano i dati nazionali, si perde di vista una quota di questa variazione in quanto non presente nei dati.
In generale, comunque, vediamo che questa dispersione è diminuita fino al 1990 per poi stabilizzarsi.
Ma la cosa molto importante è che la quota di variazione del coefficiente stati rispetto al totale (ovvero, quanto i dati nazionali riescono a spiegare e rappresentare anche i dati regionali), è scesa nel tempo (ossia, è aumento il divario fra i due dati).
Quindi, sempre di meno, i dati nazionali riescono a spiegare la variazione sottostante.
Il coefficiente di variazione non riesce a cogliere, però, un processo di correlazione spaziale decrescente, vale a dire che molte regioni vicine stanno effettivamente diventando meno simili nel tempo.
Un modo per analizzare la differenza fra regioni “correlata” alla vicinanza spaziale, è l’indice di Moran, applicato come somma delle differenze in termini di PIL rispetto a quello medio di tutte le coppie di regioni possibili, ponderato dalle distanze spaziali fra tali regioni.
Più è alto e più significa che i “vicini di casa” si assomigliano, più è basso e più le regioni limitrofe si differenziano in termini di ricchezza.
Come possiamo notare dalle figure sopra, l’indice di Moran è diminuito nel tempo (ciò significa che sempre maggiori differenze esistono in termini di ricchezza fra regioni vicine spazialmente) e aumentano i casi che presentano un indice di Morgan non significativo.
– Concentrazione del PIL vs concentrazione della popolazione.
possiamo dire che il lieve ma costante calo della correlazione tra densità della popolazione e densità del PIL ha suggerito che quest’ultima sia sempre più determinata dalla variazione regionale della produttività. Quindi il PIL si concentra geograficamente più di quanto non lo faccia la popolazione.
Ergo: le disuguaglianze territoriali aumentano dal 1980, dopo essere diminuite fino ad allora.
– Il caso italiano, un unicum del mondo avanzato.
(Capitolo a cura di Emanuele Felice).
Nel caso italiano, la convergenza è stata l’eccezione, non la regola.
La correlazione tra il livello iniziale del PIL pro capite e il tasso di crescita dell’intero periodo è leggermente negativa, il che significa che da questa prospettiva abbiamo un processo di convergenza; ma l’R2 è basso (0,208), indicando che il modello di regressione lineare si adatta male ai dati.
Da notare: tutte le regioni meridionali sono al di sotto della linea di regressione quindi, dato il loro reddito iniziale e il loro potenziale di convergenza, sono cresciute meno del previsto.
La discrepanza tra beta e sigma convergenza è dovuta all’andamento deludente delle regioni meridionali, in contrasto con l’ottimo rendimento delle regioni un tempo più povere del centro-nord.
In Italia la convergenza c’è stata più all’interno delle macroaree, le quali però hanno differito molto fra loro nel tempo.
Le differenze nord-sud ci sono sempre state, è vero, ma inizialmente non erano drammaticamente pronunciate come lo sono diventate in seguito e come lo sono tuttora.
In generale, fattori legati alla geografia possono spiegare le differenze iniziali che osserviamo fra le regioni italiane, ma non la loro evoluzione successiva – o, se sì, solo in misura molto minore.
I fattori geografici e le dimensioni del mercato, infatti, hanno giocato un ruolo minore.
Per dimostrare tale evidenza basti pensare, come suggerisce lo stesso Felice, al caso Sardegna che, in termini di fattori geografici, è di gran lunga la regione italiana più isolata e con meno potenzialità esogene, eppure è quella che performa meglio all’interno della macro-area di appartenenza.
Molti dei fattori culturali e più in generale relativi al capitale umano, determinanti in negativo per la (mancata) crescita del sud, erano preesistenti all’unità e si sono rafforzati con/dopo essa.
Inoltre, si evidenzia l’assoluta stagnazione decennale della Sardegna che, a distanza di così tanti anni, risulta sostanzialmente imbalsamata su se stessa.
– Conclusioni.
Come dicono gli autori stessi, questo lavoro è solo l’inizio di un’analisi che loro auspicano anche altri possano continuare.
Mi piacerebbe se economisti sardi prendessero in considerazione questo tipo di prospettive per creare un team di ricerca su questi temi.
Sui temi sardi mi preme sottolineare due aspetti fondamentali:
1) la sempre minore importanza dei fattori geografici sulle performance economiche è l’ennesima conferma che in Sardegna ci si dovrebbe concentrare non su inutili battaglie su presunti diritti derivanti da condizioni di insularità (dannose, ipocrite e figlie di una cultura piagnona assistenzialista) ma su fattori ben più importanti quali quelli inerenti al capitale umano ed agli impatti tecnologici ad esso correlati;
2) molte delle regioni maggiormente performanti in Europa, risiedono laddove il funzionamento istituzionale è meno centralizzato, a favore del riconoscimento delle autonomie locali, il che ci rende orgogliosi della nostra battaglia culturale, qui e altrove, a favore del (vero) federalismo fiscale (https://bit.ly/playlist_FEDERALISMO).
Ancora molto potrà essere svolto in futuro sul tema in termini di ricerca scientifica.
In questi studi, ad esempio, viene ipotizzato che vi sia la stessa inflazione per tutte le regioni di una nazione, quando è invece palese che non sia così. Studiare il superamento di questa mancanza sarebbe un ottimo risultato di analisi.
Ma non solo.
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Redazione SANATZIONE.EU
English Version, only a synthesis
I don’t remember if I personally know Gianni Carboni, but I must say that the article I came across is very interesting and the two final points are even more so. In fact, it emerges that: 1) Sardinia’s insularity factor is not the element that hinders growth, as it could paradoxically also become an advantage. After all, the geographical position of other islands with a much more dynamic economy is there to demonstrate this and I myself have publicly considered the battle of insularity in the constitution as a step backwards in perspective (a sort of recognition and self-certification of anthropological inferiority – geographic, historically indemonstrable) which contributes to shifting attention to an external element (insularity) which should instead be oriented to the factors that can effectively contribute to a change of pace in Sardinian economic life; 2) the question of the autonomy of Sardinia as a critical success factor; I have long espoused this position and further strengthened it also thanks to the contributions of many past and present authors, not least thanks to the reflections, among others, of Adriano Bomboi. Development is played on the sense of responsibility, on fiscal autonomy (and the consequent and automatic greater efficiency of public spending) and investments in human capital, as the Republic of Ireland did, coincidentally a peripheral Island, colonized for centuries and poor and today, always as it happens, at the top of the world for per capita income.