Insularità in Costituzione? Basterebbe l’ndipendenza per avere una Sardegna più ricca.
La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per il riconoscimento dell’insularità, presentata da molti come una svolta epocale, è attualmente ferma in commissione Affari costituzionali al Senato. Con questo strumento, secondo i promotori, “in nome della coesione nazionale, i sardi chiedono di avere le compensazioni infrastrutturali (trasporti, energia, reti tecnologiche, alta formazione, sanità, fiscalità di vantaggio), legate allo svantaggio dell’insularità, che consentano diritti di cittadinanza e punti di partenza uguali al resto d’Italia. I sardi chiedono cioè le precondizioni per dimostrare quanto vale ciascuna regione italiana, senza che ci siano corse ad handicap”.
Il principio di insularità in Costituzione, alla luce delle dichiarazioni ufficiali, rischia a mio parere di trasformarsi paradossalmente nella tomba dell’identità dei sardi e della Sardegna. Per come è stata confezionata mi pare una vera e propria trappola in cui il formaggio sono quelle poche risorse che potrebbero (forse) derivarne ed il topo siamo noi, noi sardi, che dopo questa elemosina dovremo ringraziare a vita la patria Italia per la grazia ricevuta riconoscendola per l’eternità come madre tenera e comprensiva nei confronti dei suoi figli (i sardi) più sfortunati per antonomasia in quanto isolani. Il testo da inserire in Costituzione indicato dal comitato promotore della proposta di legge così recita: “Lo Stato riconosce il grave e permanente svantaggio naturale derivante dall’insularità e dispone le misure necessarie e garantire una effettiva parità ed un reale godimento dei diritti individuali e inalienabili”- L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di favorire il riequilibrio economico e sociale attraverso risorse e interventi anche fiscali, primariamente nei settori dei trasporti e dell’energia.
A mio parere questa impostazione, di fatto, non fa che perpetuare il rapporto di sudditanza della Sardegna rispetto allo Stato accentratore italiano, basato essenzialmente su un approccio paternalistico. Il motivo è fin troppo chiaro: si dichiara solennemente, addirittura in Costituzione, la somma legge nazionale, che i sardi e la Sardegna sono una realtà malata per nascita e strutturalmente condannata al sottosviluppo culturale, sociale ed economico a causa della posizione geografica, con l’obiettivo di ottenere da Roma qualche spicciolo in più in cambio della rinuncia definitiva da parte dei sardi al proprio inalienabile diritto ad un’autonoma, speciale e libera via di sviluppo; in pratica la rinuncia alla nostra Storia ed alla nostra identità.
In un momento storico un cui mai come ora si aprono incredibili ed insperate strade per lo sviluppo delle periferie, in cui la strategia vincente contro la massificazione selvaggia è la globalizzazione delle culture locali, svendere tutto in cambio di un principio in costituzione che vale quanto un piatto di lenticchie, oltre che essere una truffa (perchè non corrisponde al vero) è un freno forse tombale all’elaborazione di nuove e moderne forme di sviluppo e di conseguenza ad i nostri sogni di autodeterminazione.
Chi frequenta con profitto qualsiasi elementare corso di marketing ed apprende i principi cardine del moderno stile di fare impresa dovrebbe avere ben presenti i fattori critici di successo di un’azienda del terzo millennio, tra i quali quello della targhetizzazione del mercato è il fondamentale, cioè l’individuazione del potenziale consumatore ed oggi non c’è posto migliore della Sardegna perché questa operazione possa avere successo.
Oggi nel mondo si pagano milioni di euro grandi manager che siano capaci di inventare un prodotto ed una storia da apiccicarci addosso. La Sardegna ha la fortuna di avere prodotti e storie già pronti. I primi ce li ha donati la natura con la sua incredibile biodiversità (che si traduce in varietà) e la tradizione culinaria, le seconde sono il naturale risultato di millenni di storia della Sardegna, una storia che si è svolta in sincronia con le antiche civiltà mesopotamiche ed in condivisione delle successive vicende egizie e greche. La storia più antica della Sardegna, caratterizzata da un numero impressionante di sacri monumenti megalitici (Menhir, Tombe ipogeiche, Pozzi Sacri, Domus De Janas, Tombe dei giganti, Nuraghi etc etc), quantificabile in almeno diecimila opere architettoniche oltre che da una produzione artistica di enorme valore estetico e culturale (la statuaria, i bronzetti, i gioielli), ha preceduto di oltre 2000 anni la leggendaria nascita della Roma dei sette colli.
La vera rivoluzione per la Sardegna, dunque, non sarebbe l’introduzione nella Costituzione del principio di insularità, ma del riconoscimento delle sue naturali prerogative di indipendenza attraverso la creazione di un rapporto federato con la Repubblica italiana, indipendenza che, come ho già avuto modo di spiegare in altro mio intervento, sarebbe di per sè elemento dirimente capace di costituire incentivo di sviluppo sociale ed economico dei sardi.
Chi avesse dubbi potrebbe leggersi i libri di Storia della Sardegna (non certamente quelli ministeriali che della Sardegna non si occupano proprio e che quando lo fanno la assimilano disgraziatamente al resto d’Italia), per scoprire che ogni qualvolta ci siamo trovati liberi di autodeterminarci abbiamo costruito società ed economia solide ritagliandoci il nostro ruolo nel mediterraneo. Non ambiamo certo ad abbracciare l’autarchia e nemmeno ad isolarci dal resto del mondo, con l’Italia e l’Europa possiamo condividere in forma federata una politica estera e di difesa comune, ma tutto il resto, stante la nostra indubbia specialità, deve ricadere integralmente sotto la nostra competenza.