Quando i nobili macomeresi si opposero al patriota Angioy – 6 Giugno 1796.
Questi giorni ripensavo insistentemente alla figura del patriota Giovanni Maria Angioy e mi sono ricordato di questo interessante contributo del giornalista Pier Gavino Vacca del 27 Aprile 2003. Un pezzo di Storia di cui i macomeresi, a mio parere, non possono certo dirsi orgogliosi.
MACOMER. Quando a metà febbraio 1796, Giovanni Maria Angioy, inviato a Sassari per sedare i disordini, arrivò a Santulussurgiu, giunto fra gli amici delle famiglie Obinu e Massidda, palesò la sua intenzione antifeudale. Incoraggiato dall’amico Michele Obinu, uno degli ideologi della rivoluzione sarda, cominciò la marcia verso Sassari. Non passò per Macomer. Giunse invece a Sindia dal percorso che da San Leonardo porta al monte di Sant’Antonio. Qualcuno doveva avergli riferito che nel Marghine non tutti l’avrebbero accolto a braccia aperte. Sotto l’impulso di Salvatore Pinna e Salvatore Tola si organizzava a Macomer la fazione fedele al regime feudale.
Ne facevano parte anche i componenti della famiglia Passino, sparsi tra Bortigali e Bosa. Tra cui il terribile Gavino, che fu uno dei nemici più implacabili dell’Angioy.
Arriviamo al famoso 6 giugno, che segnò l’inizio della marcia di Angioy verso il capo di sotto, nell’illusione di sollevare le popolazioni contro il regime feudale. Arrivato a Semestene, con tutto il variopinto seguito, decise di mandare ambasciatori nei paesi vicini per convocare la cavalleria miliziana a Santulussurgiu. A Macomer fu spedito Antonio Cinteri, il vecchio maggiore di giustizia, nell’illusione che avesse ancora un certo ascendente. Accompagnato da Giovanni Maria Rocca, di una famiglia acerrima nemica dei Passino, da un nobile di Giave, da Giovanni Sequi Roig e un abitante di Semestene.
Arrivati a Macomer verso le 21, furono arrestati per ordine di Salvatore Pinna. A questo punto, Angioy decise di mandare a parlamentare Domenico Pinna, pensando che il fratello Salvatore non avrebbe avuto il coraggio di arrestarlo. Sulla strada, Domenico incontrò Salvator Angelo Sequi, il notaio Manconi e Giuseppe Pinna Sanna, che lo avvisarono delle difese che il fratello stava approntando contro l’esercito rivoluzionario. Domenico allora decise di andare da solo. Forte della sua carica di delegato dell’Alternos convocò a casa i notabili. Con le buone e con le minacce tentò di fargli firmare il patto antifeudale, adombrando persino che, in caso di rifiuto, il Marghine si sarebbe messo contro tutto il Logudoro.
A Domenico si oppose ‘in totale furia”, come si legge nelle relazioni, il fratello Salvatore. Domenico capi che non c’era niente da fare e chiese che fosse fatto entrare in paese almeno Giovanni Maria Angioy con una scorta adeguata. La proposta fu accettata ed una delegazione, di cui faceva parte un altro fratello Pinna, il sacerdote Pietro, fu spedita fra gli insorti per trattare la questione.
Gli ambasciatori non avevano però fatto i conti con i thiesini che insorsero quando udirono le richieste, gridando che non avrebbero mai lasciato solo chi li aveva liberati dal giogo feudale. Ancora più furibondo apparve il sacerdote Pietro Muroni, che gridò che sarebbero entrati a Macomer ‘a malagana”. Esaltato dalle attestazioni di solidarietà si mise a gridare anche Giovanni Maria Angioy, affermando che, in nome di tutto ciò a cui aveva dovuto rinunciare, non avrebbe lasciato gli amici che lo aiutavano a combattere i feudatari: fino all’ultima goccia del suo sangue.
Gli ambasciatori, vista la malaparata, si ritirarono in fretta. Seicento uomini si diressero verso Macomer. Giunti in prossimità del paese, probabilmente all’altezza dell’attuale incrocio del Corso con via Roma, vennero accolti da una salva di fucilate sparate dagli uomini che erano stati nascosti, dietro enormi massi, da Salvatore Pinna e Salvatore Tola. Gli insorti risposero al fuoco e la scaramuccia durò circa mezzora, come testimonia Angioy in una lettera. Tra i combattenti più accaniti, dalla parte dei ribelli, c’era Pietro Muroni, ex parroco di Semestene che, con due pistoloni in mano, gridava: ‘Animu, animu. No los timedas. Fogu, fogu”.
Qualche colpo fini anche su chi non c’entrava. Caddero uccisi due passanti, Francesco Pisanu e Sebastiana Pisano. Dall’altra parte cadde un dragone, colpito da fuoco amico. Nella confusione, aveva pensato bene di entrare nella casa di un sacerdote portando via delle lenzuola. Se non sconfisse l’esercito dell’Angioy, il fuoco dei macomeresi ebbe comunque un effetto psicologico determinante. Molti infatti, che fino ad allora non avevano visto una battaglia seria, decisero, scoraggiati, di tornare indietro, mostrando poca convinzione nella causa.
Fu questo forse il colpo decisivo per Giovanni Maria Angioy. Quest’ultimo entrò ugualmente a Macomer mentre i suoi depredavano le case degli avversari, indicate da Sequi. A casa di Salvator Angelo Sequi, Giovanni Maria Angioy convocò i notabili cercando ulteriormente di convincerli ad aderire alla causa antibaronale. Ma la resistenza ostinata dei convenuti lo convinse a desistere. Non senza aver prima profferito minacce, si diresse nel bosco di Matta Sindia dove i suoi avevano stabilito il campo. Da li sarebbe andato a Santulussurgiu e poi ad Oristano.
Ma appariva chiaro che la sua impresa era fallita e, da li a poco, sarebbe fuggito, tradito da molti che lo avevano seguito nella prima ora. (p.g.v.)
Macomer all’epoca era un paese di pastori i cui interessi confliggevano con il progetto antifeudale dell’ Angioy, sostenuto dai contadini del Logudoro e del Sassarese che risultavano vessati dal sistema feudale allora vigente, che, al contrario non risultava del tutto sfavorevole per i pastori che potevano sfruttare l’uso comune delle terre, il sistema agrario della viddazzone e una pressione fiscale moderata. L’ opposizione dei macomeresi e degli altri paesi del Margine alla rivoluzione dell’Angioy ha pertanto una sua giustificazione storica.