Giovanni Maria Angioy, una rivoluzione ancora attuale, solo rimandata
Fonte: Francesco Casula
1. Contesto storico (politico, sociale e culturale) in cui si situa il triennio rivoluzionario (1793-96) e l’opera angioyana
Il triennio rivoluzionario caratterizzato fra l’altro dallo “scommiato” dei Piemontesi da Cagliari prima e dalla Sardegna poi (da Alghero come da Sassari) ma soprattutto dalla rivoluzione agioyna e antifeudale degli anni ’95-’96, non sono spiegabili se non all’interno degli avvenimenti internazionali degli anni ’90 e le rivoluzioni contadine sarde degli anni ’80, quando quasi ovunque in Sardegna – ma soprattutto nel Sassarese – fu necessario ricorrere all’invio di truppe da parte dei savoia per l’esazione dei tributi feudali. A Thiesi, Ittiri, Uri, Sorso, Bulzi, Sedini, Osilo, Plagheecc. il saccheggio dei magazzini baronali e il rifiuto di pagare i tributi e i gravami dei nobili era ormai all’ordine del giorno fin dall’agosto del 1789, l’anno della rivoluzione francese.
“Ciò perché – come scrive Girolamo Sotgiu (1) – “il regime feudale era ormai entrato in una contraddizione non più tollerabile con le esigenze dei contadini, tanto da dover ricorrere all’impiego della forza per non essere travolti”.
Probabilmente furono anche i fatti che avvenivano in Francia con la rivoluzione francese dell’‘89, ma soprattutto in Piemonte, a far maturare la situazione. Il diffondersi delle idee rivoluzionarie – in alcuni ceti non ristrettissimi – contribuì infatti a far maturare la consapevolezza che era venuto il momento di resistere ai soprusi, soprattutto là dove il regime feudale era più prepotente e insopportabile. A ciò occorre aggiungere la vicenda piemontese: con la dichiarazione (settembre ’92) di guerra della Francia a Vittorio Amedeo III e l’occupazione della Savoia prima e di Nizza poi (27 settembre ’92).
Dentro queste vicende si inserisce:
a – Il tentativo francese di conquista nel ’92-’93 della Sardegna, sia per il valore dei porti sardi, soprattutto in caso di una inevitabile guerra con l’Inghilterra, sia per potersi giovare del grano e del bestiame sardo, con cui approvvigionare l’esercito e impinguare le casse dello stato che la guerra e la rivoluzione avevano ormai svuotato.
b – Lo sbarco francese a San Pietro, Sant’Antioco e a Cagliati-Quartu. I Francesi sbarcano e occupano l’Isola di San Pietro l’8 gennaio 1793 e pochi mesi dopo Sant’Antioco. Il 23 gennaio la flotta comandata dal Truguet getta le ancore nella rada di Cagliari, bombardandola; il 27-28 gennaio i francesi sbarcano nel Margine Rosso di Quartu Sant’Elena e il 14 febbraio sottopongono a un fuoco infernale le posizioni tenute dal barone Saint Amour. Ma dopo una serie di scontri con i miliziani sardi, sono costretti a reimbarcarsi precipitosamente.
c – L’attacco di Napoleone a La Maddalena respinto da Millelire. Parallelamente alla spedizione del Truguet un altro attacco vede Napoleone Bonaparte comandante dell’artiglieria con il grado di tenente colonnello. Grazie soprattutto al valore del maddalenino Domenico Millelire e del tempiese Cesare Zonza, l’attacco fu respinto.
Anche San Pietro e Sant’Antioco saranno liberati tra il 20 e 25 marzo, per l’intervento di una flotta spagnola. Così, sconfitti al Nord come al Sud, i francesi furono costretti al ritiro.
2. La vittoria sui francesi fu una “Vandea”?
“Gli storici dell’Ottocento e in tempi più vicini a noi Sebastiano Pola e Damiano Filia – scrive lo storico sassarese Federico Francioni (2)– non hanno esitato nel definire il Novantatre come una “Vandea”. Certo, la presenza di una componente politica ed ideologica di tipo “vandeano” non può essere negata. Tuttavia una valutazione così unilaterale – che intende dilatare oltre ogni limite il mito della fedeltà dei Sardi alla Corona – non rende assolutamente conto del complesso intreccio di fattori e motivazioni che stanno alla base della risposta data ai Francesi dalle popolazioni, dalle truppe miliziane e da chi si mise alla loro testa. A smentire queste interpretazioni – continua Francioni – contribuiscono innanzitutto una serie di fatti, in parte oscuri, che si svolsero durante le prime settimane di quell’anno. Nel 1793 l’avvocato sassarese Gioachino Mundula fece aperta propaganda repubblicana dichiarando che i Sardi avrebbero dovuto fare causa comune con i francesi. Per questo motivo egli fu arrestato e chiuso nel Castello: ma non rimase a lungo inascoltato e isolato, perché dopo due anni divenne uno dei capi riconosciuti delle lotte nelle campagne logudoresi. La tesi di un Novantatre come “Vandea” – continua Francioni – crolla se solo si guarda ai protagonisti della difesa della Sardegna. Fra coloro che provvidero alla riorganizzazione della macchina militare si distinse una atipica figura di aristocratico come Francesco Maria Asquer, visconte di Flumini, in seguito sospettato di giacobinismo e di filofrancesismo. Il governo alcuni anni dopo lo esiliò e lo perseguitò in modo da decretare praticamente la sua rovina economica.”
Nel 1793 lo stesso Giovanni Maria Angioy fece giungere da Bono un nerbo di cavalleria miliziana che poi mantenne a sue spese a Cagliari. Nella capitale accorse anche Pietro Muroni con un manipolo di 37 uomini, il cui soggiorno di tre mesi fu pagato dal fratello Francesco, parroco di Semestene, che di lì a poco sarà in prima fila nel movimento antifeudale. Tutti questi personaggi più che da un profondo odio antifrancese furono spinte a battersi e a ben figurare da una prospettiva di elevamento sociale, dall’esigenza di onori e prebende da chiedere come ricompensa dei servigi prestati.
“Ma soprattutto occorre ricordare la ricomparsa di un profondo sentimento nazionale sardo che si delinea in quei momenti – è ancora Francioni a sostenerlo ed io con lui – e lo sarà ancor più di lì a poco, come una corposa realtà concreta ed operante.
3. Fu un vantaggio per la Sardegna?
Difficile dire se fu un bene per la Sardegna: molti storici infatti ritengono che sarebbe stata più utile per l’Isola una vittoria delle armi francesi, perché avrebbe messo fine al feudalesimo inserendola nel più vasto circuito e flusso economico dell’Europa.
Fatto sta che l’invasione francese fu respinta per merito – su questo non vi è alcun dubbio neppure da parte degli storici filopiemontesi – soprattutto dei Sardi che – cito
Natale Sanna (3)- “dopo secoli di inerzia e di supina quiescenza, finalmente consapevoli del proprio valore e la classe dirigente fiera della sua forza e dei risultati ottenuti, credettero giunto il momento di chiedere al re il riconoscimento dei propri diritti, tanto più che a Torino, mentre si concedevano in abbondanza promozioni ed onori ai piemontesi si ignorava l’elemento sardo”.
Infatti – ricorda Girolamo Sotgiu (4)– “seguendo le indicazioni del vice re Balbiano, le onorificenze militari accordate dal Ministero della Guerra furono tutte concesse, con evidente ingiustizia, alle truppe regolari, che avevano dato così misera prova di sé… e alla Sardegna che aveva conservato alla dinastia il regno concesse ben povera cosa: 24 doti di 60 scudi da distribuire ogni anno per sorteggio tra le zitelle povere e l’istituzione di 4 posti gratuiti nel Collegio dei nobili di Cagliari…”. E altre simili modeste concessioni.
4. Le 5 domande
Di qui la decisione del Parlamento sardo composto dai cosiddetti stamenti: – quello militare (o feudale), quello ecclesiastico e quello reale, (formato dai rappresentanti delle città) – riuniti nel marzo-aprile del 1793 di inviare un’ambasceria a Torino per presentare al sovrano 5 precise richieste:
1) il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, interrotta nel 1699;
2) la conferma di tutte le leggi e privilegi, anche di quelli caduti in disuso o soppressi pian piano dai Savoia nonostante il trattato di Londra;
3) la concessione ai “nazionali” sardi” di tutte le cariche ad eccezione di quella vicereale e di alcuni vescovadi;
4) la creazione di un Consiglio di stato, come organo da consultare in tutti gli affari che prima dipendevano dall’arbitrio del solo segretario;
5) la creazione in Torino di un Ministero distinto per gli affari della Sardegna.
Si trattava, come ognuno può vedere di richieste tutt’altro che rivoluzionarie non mettevano in discussione l’anacronistico assetto sociale né le feudali strutture economiche, anzi, in qualche modo tendevano a cristallizzarle. Esse miravano però a un obiettivo che si scontrava frontalmente con la politica sabauda: volevano ottenere una più ampia autonomia, sottraendo il regno alla completa soggezione piemontese, per affidare l’amministrazione agli stessi Sardi.
5. La risposta del sovrano.
La risposta del re Vittorio Amedeo non fu solo negativa su tutto il fronte delle domande ma fu persino umiliante per i sei membri della delegazione sarda (Monsignor Aymeric di Laconi e il canonico Pietro Maria Sisternes de Oblites per lo stamento ecclesiastico; gli avvocati Antonio Sircana a Antonio Maria Ramasso per lo stamento reale; Girolamo Pitzolo e Domenico Simon per lo stamento militare).
Il Pitzolo scelto dalla delegazione per illustrare le richieste, non fu neppure ricevuto dal sovrano né ascoltato dalla Commissione incaricata di esaminare il documento… Non solo: il ministro Graneri neppure si curò di comunicare alla delegazione ancora in Torino la decisione negativa del re, trasmettendola direttamente al vice re a Cagliari.
Commenta opportunamente il Carta-Raspi (5): “Ai Sardi non era concesso più di quanto ricevevano dall’iniziativa sovrana, cioè nulla.” E ancora: “Ora più che mai l’avversione contro i Piemontesi non è più solo questione di impieghi e cariche. I Sardi volevano liberarsene non solo perché essi simboleggiavano un dominio anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’Isola, ma pure e forse soprattutto per esserne ormai insopportabile l’alterigia e la sprezzante invadenza”.
È dentro questo corposo contesto storico che occorre situare lo “scommiato” dei Piemontesi, contesto anche psicologico e culturale.
6. La cacciata dei Piemontesi – Il fatto
Nulla meglio di alcune strofe de S’Innu de su Patriottu Sardu scritto in quegli anni ci fanno comprendere lo stato d’animo dei Sardi alla vigilia dei moti cagliaritani.
Fi’ pro sos Piemontesos
Sa Sardigna una cucagna;
Che in sa Indias s’Ispagna
Issos s’incontrant inoghe;
Nos alzaia’ sa ‘oghe
Finzas unu camareri;
O plebeu o cavaglieri,
Si deviat umiliare.
Issos dae custa terra
Ch’ana ‘ogadu miliones.
Benian senza calzones
E si nd’andaian gallonados.
Mai ch’ esserent istados
Chi c’ ana postu su fogu!
Malaitu cuddu logu
Chi creia’ tale Zenia!
Issos inoghe incontràna
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fin sos impleos,
Pro issos fin sos onores,
Sa dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
E a su Sardu restàda
Una fune a s’impiccare.
Sos disculos nos mandàna
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione,
Cun impleu e cun patente.
In Moscovia tale zente
Si mandat a Siberia,
Pro chi morza’ de miseria,
Però non pro guvernare.
Ecco come lo storico sardo da Girolamo Sotgiu descrive il fatto:
“E fu così che il 28 Aprile 1794, come narrano le cronache “si videro i soldati del reggimento svizzero Smith vestiti in parata”. La cosa passò inosservata perché si pensò che si trattasse di esercitazioni militari. Ma «sull’ora del mezzogiorno furono rinforzati i corpi di guardia a tutte le porte, tanto del Castello, come della Marina», e questo fatto cominciò a suscitare qualche preoccupazione fino a quando «sull’un’ora all’incirca, quando la maggior parte del popolo è ritirata a casa e a pranzo, fu spedito un numeroso picchetto di soldati comandato da un Capitano Tenente e tamburo battente con due Aiutanti ed il Maggiore della piazza» ad arrestare Vincenzo Cabras,
«Avvocato dei più accreditati e ben imparentato nel sobborgo di Stampace», nonché il genero avv. Bernardo Pintor e il fratello Efisio Luigi Pintor, che poté sfuggire alla cattura perché assente. (7)
I due arrestati furono condotti alla torre di S. Pancrazio e furono subito chiuse tutte le porte, mentre già il popolo si radunava tumultuando.
Il Manno dice che il Cabras era «un vecchio venerando per dottrina e probità», che nel lungo esercizio della professione aveva «tratto a sé amistà e clientele in gran numero», ed Efisio Pintor, che era sfuggito all’arresto, «benché in giovane età [era] uno dei dottori più illustri del foro cagliaritano, nel quale brillava per pronto e sagace giudizio e per vigoroso ragionare» (8).
L’arresto di uomini noti anche per la partecipazione attiva alla vita pubblica apparve subito quello che probabilmente doveva essere: l’inizio, cioè, di una rappresaglia più massiccia.
Da qui l’accorrere tumultuoso di centinaia, migliaia di persone, l’assalto alle porte, che furono bruciate o divelte, l’irruzione nei corpi di guardia, il disarmo dei soldati, la conquista del bastione e delle batterie dei cannoni. Tutto questo nel rione di Stampace, dove si erano verificati gli arresti. All’insorgere di Stampace seguì in rapida successione la sollevazione dei borghi di Villanova e della Marina. La folla, superata la resistenza dei soldati, aprì le porte che tenevano divisi i sobborghi l’uno dall’altro che la massa del popolo unita poté rivolgersi alle porte del Castello.
Negli scontri rimasero uccisi alcuni popolani e alcuni soldati. L’assalto al Castello, dove il viceré voleva organizzare una più efficace resistenza, avvenne subito dopo. Bruciata la porta, lunghe scale appoggiate alle muraglie, «facendo scala delle loro spalle l’uno sopra l’altro» (9), i dimostranti riuscirono a entrare nei locali dove erano ammassate le truppe a difesa del viceré e del suo quartier generale. In realtà, lo scontro fu di breve durata. Sempre il padre Napoli racconta che subito «si vidde la poca voglia avean gli svizzeri di offendere i paesani, poiché essendo iví di guardia in buon numero neppure tiravano una fucilata»(10). L’unica resistenza, anche se non di lunga durata, fu opposta dai dragoni piemontesi.
In poco tempo fu così conquistato il palazzo viceregio e tutta la città si trovò nelle mani degli insorti. Gli stamenti, nella narrazione che fecero di quanto accaduto in un Manifesto giustificativo (11), inviato al sovrano, e che, col contrapporre le malefatte dei funzionari alla benevolenza e saggezza del re, esprime la volontà di ristabilire rapidamente un accordo con il potere regio, così narrarono gli avvenimenti successivi:
“Resosi il Popolo padrone di tutto il Castello, e in particolare del Palazzo viceregio, calmò in un momento tutta la sua furia e fu tenero spettacolo il vedere allora confusamente abbracciati i soldati coi cittadini. Al Viceré che temeva tutto dal giusto sdegno di un Popolo irritato si presentarono alcuni cittadini e riconoscendo in lui l’eccelso carattere di rappresentante di Sua Maestà, non solo lo rassicurarono intorno ai suoi timori, ma si astennero financo da ogni tratto ingiurioso ed altero, ed esprimendo la volontà dello stesso Popolo pretesero unicamente per sua soddisfazione lo scommiato dall’isola di tutti i piemontesi impiegati e non impiegati non eccettuato esso Viceré, a riserva di Monsignore Arcivescovo di Cagliari e degli altri prelati di quella nazione” (12).
Poi, a testimonianza della continuità di governo, si riunì secondo gli ordinamenti del regno il magistrato della Reale Udienza, con la partecipazione dei soli membri sardi, che decise le modalità da seguire per lo scommiato dei piemontesi.
Così, il 7 maggio 1794, 514 tra piemontesi savoiardi e nizzardi furono costretti ad abbandonare l’isola, e, «divulgata per tutto il Regno l’espulsione da Cagliari dei Piemontesi, fu universale l’approvazione» (13); ad Alghero fu fatta la stessa cosa e, dopo qualche resistenza, anche Sassari seguì l’esempio della capitale. Né mancò, nel giorno drammatico dello scommiato da Cagliari, anche il grande gesto da tramandare alla storia: «La piazza che dalla porta di Villanova mette nel Castello era ingombra di popolani della classe più umile. Erano carrettaj, facchini, beccai, ortolani ed altri di simil fatta, gente poco ausata a squisitezza di tratti», quando la piazza fu attraversata dai carri che «scendevano dal Castello nel quale aveano avuto stanza i maggiori ministri», trasportando «al porto le loro masserizie con quelle del viceré». All’apparire di tanta «abbondanza di carriaggi», si levò un solo grido:“Ecco le ricchezze sarde trasformate in ricchezza straniera: non giungeano qui con tanto peso di bagagli o con questa dovizia di guarnimenti: assottigliati ci veniano e scarsi quelli che oggi si dipartono con fortuna così voluminosa. Buoni noi e peggio che buoni, se lasciamo che abbiano il bando con questi stranieri anche le robe che erano nostre.”
E il passare dalle parole ai fatti sarebbe stato inevitabile, se un beccaio, Francesco Leccis, sentita nell’animo l’indegnità del tratto, sale sopra una panca, e brandendo in mano il coltellaccio del suo mestiere quale scettro d’araldo, fermatevi, grida a quei furiosi: “Quale viltà per voi, quale onta a tutti noi! Non si dirà più che la Sardegna ha bandito gli stranieri per insofferenza di dominio, si dirà che si è sollevata per ingordigia di preda. La Nazione volea cacciarli e voi li spogliate?” Ed esortati i carrettieri a muoversi, “la folla si bipartiva, e le voci erano chete, e l’onore di quella critica giornata era salvata da un beccaio» (14).
Meno aulicamente del Manno, il padre Napoli racconta la stessa cosa:
Lasciateli andare – sembra che il Leccis abbia detto – che i sardi benché poveri non han bisogno della M… dei Piemontesi, parole che colpirono in modo lo spirito di quelle plebaglie, che subito risposero nel loro linguaggio: aicci narras tui? chi si fassada, cioè: così dici tu? che si faccia (15).
L’episodio, qualunque sia lo stile col quale è narrato, sembra confermare con la sua immaginosità, che, a un fatto di una gravità estrema, coloro che ne erano stati protagonisti volevano dare un significato il meno possibile drammatico”.
7. Significato storico e simbolico
“Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi?
Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”
Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” lo scrittore Piero Marcialis (16) fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino.
Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: i sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”.
E cacciano i Piemontesi e savoiardi, non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere.
Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu (17).
Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”.
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.
Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
8. Sa die de sa Sardigna
Per ricordare lo scommiato dei Piemontesi è nata “Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi”- con una legge n. 44 del 14 settembre 1993. Con essa la Regione Autonoma della Sardegna ha voluto istituire una giornata del popolo sardo, da celebrarsi il 28 aprile di ogni anno, in ricordo – dicevo – dell’insurrezione popolare del 28 aprile 1794, ovvero dei “Vespri sardi” che portarono all’espulsione da Cagliari e dall’Isola dei piemontesi e di altri forestieri ligi alla corte sabauda, compreso lo stesso inviso Viceré Balbiano. Il problema che abbiamo oggi davanti, a livello soprattutto culturale, non è tanto quello di ridiscutere la data o, peggio, il valore stesso di una “Festa nazionale sarda”, bensì di non ridurla a semplice rito, a pura vacanza scolastica o a mero avvenimento folclorico e festaiolo.
Il problema è quello di trasformarla in una occasione di studio – soprattutto nelle scuole – della storia e della cultura sarda, di confronto e di discussione collettiva e popolare, per capire quello che siamo stati, quello che siamo e vogliamo essere; per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione; per batterci per una Comunità moderna e sovrana, capace di mettere in campo l’orgoglio e il protagonismo dei Sardi, decisi finalmente a costruire un riscatto ovvero un futuro di prosperità e di benessere, lasciandosi alle spalle la rassegnazione, la lamentazione, il piagnisteo e i complessi di inferiorità e avendo il coraggio di “cacciare” i “nuovi piemontesi” o romani o milanesi che siano, non meno arroganti, prepotenti sfruttatori e “tiranni” di quelli scommiatati da Cagliari il 28 aprile del 1794.
“Fu un momento esaltante – ha scritto Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione“realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”. Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante è oggi il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante.
Nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato dunque: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza.
Un passato che – solo apparentemente perduto – occorre ritrovare perché è durata, eredità, coscienza. In esso si innesta infatti il valore dell’Identità, non statico e chiuso, non memoria cristallizzata ma patrimonio che viene da lontano e fondamento nel quale far calare nuovi apporti di culture, di vite individuali e sociali che determinano sempre nuove identità.
Il messaggio di Sa die è rivolto soprattutto ai giovani e l’occasione storico-culturale è destinata prima di tutto agli studenti, perché acquistino consapevolezza di appartenere a una storia e a una civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti: i giovani e non solo.
9. Governo della Reale Udienza, contraddizioni del post-“commiato” e la figura di G. M. Angioy
Il post scommiato – Con la cacciata del viceré e dei Piemontesi, il governo (in cui gli Stamenti si erano arrogati il diritto di interferire) fu assunto, dalla Reale Udienza, dominata da Giovanni Maria Angioy, e la difesa fu affidata alla milizia popolare del Sulis. Inizia in questo momento un periodo pieno di contraddizioni: da una parte ricco di speranze e progetti verso l’Autogoverno, dall’altra con un rovinoso prevalere di interessi e appetiti personali e di gruppo, con tradimenti e trasformismi, opportunismi e ambizioni.
Fallita intanto la missione a Torino, facevano ritorno in patria il Sircana ed il Pitzolo.
In quest’ultimo, tuttavia, – scrive Natale Sanna (18) – “che pur con la sua lettera era stato (a quanto almeno si diceva) uno dei principali sobillatori della rivolta del 28 aprile, si notava uno strano cambiamento: biasimava la sommossa ed i suoi capi, proclamava doversi ristabilire l’ordine turbato dalla disubbidienza alle disposizioni reali, accusava aspramente Domenico Simon come uno dei principali responsabili del fallimento della missione”.
La defezione del Pitzolo, passato ormai apertamente ai conservatori, provocò il rafforzamento dell’altra fazione, detta dei giacobini (termine forse improprio, ma allora di moda), capitanata da Cabras, Pintor, Sulis, Musso e, soprattutto, dall’Angioy. “In questo ribollimento di odi e di fazioni, – scrive ancora Sanna – un inaspettato provvedimento del governo di Torino sembrò dar ragione a coloro che accusavano il Pitzolo di essersi lasciato corrompere da segrete promesse di impieghi e di prebende”.
Il nuovo ministro, conteAvogadro di Quaregna, nominò d’autorità, senza tener conto. dell’antico sistema delle terne, i nuovi alti ufficiali: reggente la Reale Cancelleria l’avvocato Gavino Cocco, governatore di Sassari il cavalier Santuccio, generale delle milizie il marchese Paliaccio della Planargía, notoriamente reazionario, ed infine sovrintendente del Regno il cavalier Pitzolo. Le proteste si levarono violentissime: si inficiavano di illegalità le nomine per non essersi tenuto conto dell’uso delle terne, si accusava di spergiuro il Pitzolo per non aver tenuto fede al giuramento fatto prima di partire per Torino, ma soprattutto si paventava lo spirito reazionario del Planargia che si vociferava, volesse restaurare l’antico ordine e reprimere duramente i capi della rivolta contro i Piemontesi il 24 aprile. Si paventava inoltre che sia il Pitzolo che il Planargia riservassero solo a sé a i propri amici “reazionari” cariche, benefizi e impieghi escludendo rigorosamente i “democratici”.
Non si può procedere nella narrazione senza chiedersi quali fossero gli obiettivi che il movimento popolare intendeva raggiungere cacciando via dall’isola i piemontesi e lo stesso viceré.
Sull’insurrezione di Cagliari, sugli avvenimenti successivi e sul ruolo giocato da Giovanni Maria Angioy esiste infatti un dibattito storiografico, che, sin dall’inizio, con le opere del Manno e del Sulis, si è venuto fortemente intrecciando a motivazioni politiche che possono anche oggi influire su un corretto giudizio degli avvenimenti.
I popolani di Cagliari, alle cui spalle agivano influenti personaggi di orientamento democratico e giacobineggiante, si proponevano, come sembra ritenere il Manno, di rovesciare gli ordinamenti tradizionali e, seguendo l’esempio francese, approdare alla costituzione di una repubblica sarda? O, invece, e certo ugualmente rinnovando, sia pure con valenza politica ben diversa, riconquistare «i privilegi tradizionali» progressivamente usurpati dai piemontesi, così da assicurare al regno un governo rispettoso degli interessi della popolazione locale?
E, in questo quadro, quale la funzione di Giovanni Maria Angioy, certo la figura di maggior rilievo e prestigio del movimento complessivo? Quella di chi sin dall’inizio aveva chiaro che l’obiettivo era una Sardegna repubblicana e non più feudale e, in funzione del raggiungimento di questo obiettivo, regolava le mosse proprie e delle forze politiche che lo seguivano? O quella, invece, di chi adeguava la propria strategia all’incalzare degli avvenimenti e all’allargarsi della mobilitazione di massa, progressivamente mutandola, sino a esserne travolto anche per mancanza di un disegno strategico iniziale costruito in base a una valutazione attenta delle forze che sarebbe stato possibile mobilitare?
Difficile rispondere a questi interrogativi. Occorrerà studiare in modo più approfondito quegli anni terribili e insieme fecondissimi: in cui saranno poste le premesse del riscatto e dell’Autonomia del popolo sardo.
Certo è che – per usare la prosa storica di Girolamo Sotgiu (19) – “i protagonisti di quelle vicende in realtà erano non tessitori di miserabili congiure o espressione di improvvide rivalità campanilistiche o, nella migliore delle ipotesi, ambiziosi riformatori sociali, ma gli interpreti di un disegno globale di rinnovamento politico e sociale della Sardegna, in accordo con lo spirito dei tempi…” E quel periodo della storia della Sardegna, non solo il triennio rivoluzionario ma l’intero decennio (1789-1799) “seppure si chiude con la sconfitta delle forze politiche e sociali che lottavano per una trasformazione profonda della società isolana ha tuttavia rappresentato il punto di riferimento per quanti successivamente hanno speso il loro impegno per liberare l’Isola dalla subalternità e dalla arretratezza”.(20).
Fra i protagonisti di tale disegno complessivo di riscatto politico, economico e sociale e di autonomia identitaria, emerge con forza e spicco la figura di Giovanni Maria Angioy.
10. La figura di Giovanni Maria Angioy
La sua figura – scrive il già citato storico sassarese Federico Francioni (21)- nella storia del suo tempo è stata a lungo oggetto di controversie, a volte di esaltazioni, a volte di accuse, spesso condizionate da un dibattito politico contingente, che prendevano particolarmente di mira sue indecisioni e «doppiezze».
Oggi invece è necessario cercare di capire nel profondo le ragioni dei dubbi ed anche delle ambiguità che, ad un primo esame, sembrano le fasi e le caratteristiche più marcate della biografia angioyna. Ma è indispensabile, prima di tutto, indagare sulle origini delle lotte antifeudali con le quali giunsero a maturazione istanze comuni sia al mondo delle campagne che ai gruppi della nascente borghesia isolana.
È essenziale, inoltre, non perdere di vista il quadro in cui vanno collocati gli avvenimenti sardi: il drammatico scenario dominato dal crollo dell’ancien régime, dalle attese quasi messianiche di emancipazione delle masse rurali, dall’azione di élites audaci ed intransigenti e dagli «alberi della libertà».
Solo così sarà possibile rimettere in discussione stereotipi – in larga parte ancora vigenti – su una Sardegna tagliata fuori, sempre e comunque, da tutte le grandi correnti rivoluzionarie, politiche, culturali ed intellettuali dell’Europa moderna.
11. Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza.
La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense.
Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente, oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.
Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.
12. Angioy e i moti del 1795.
I moti del 1795 – scrive ancora Francioni – a differenza di quelli del 1793, che in genere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica. Infatti insieme alle ribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a “patti” fra ville e paesi– per esempio fra Chiesi, Bessude, Brutta e Cheremule il 24 novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi le persone giuravano di “non riconoscere più alcun feudatario”.
Lo sbocco di questo ampio movimento – autenticamente rivoluzionario e sociale perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne – fu l’assedio di Sassari – scrivono gli storici Lorenzo e Vittoria Del Piano (22). Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi, il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi. Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto economico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne si inserisce il ”rivoluzionario” Giovanni Maria Angioy.
13. Angioy “Alternos”.
Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro.
L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.
14. L’Angioy a Sassari
Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni. Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere.
Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile” (23). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.
15. L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…
Il 2 Giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui” (24). Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicchè egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano.
Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos: l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche piatto di lenticchie.
Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”.
Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale (25)- non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”(26).
16. La figura di Giovanni Maria Angioy e la valutazione degli storici Dionigi Scano
Nella prefazione a Scritti inediti, Gallizzi editori, nel secondo capitolo dedicato a “Don Maria Angioy e i suoi tempi” oltre che esprimere lui stesso dei giudizi “Dei personaggi che parteciparono alle movimentate vicende della Sardegna nell’ultimo decennio del XVIII secolo, il più discusso è stato ed è tuttora il giudice della Reale Udienza Don Giommaria Angioi o meglio Angioy secondo la grafia originaria”, riporta tutta una serie di valutazioni di altri storici, sardi, italiani e stranieri.
Eccoli:
“Il primo a scriverne fu Domenico Alberto Azuni con il quale 1’Angioy fu legato d’affettuosa amicizia che, contratta sin da quando ambedue frequentarono le scuole del Collegio Capoleno di Sassari, si rafforzò ancor più in età matura a Parigi, dove si trovarono ai primi dell’Ottocento, 1’Angioy esule e accorato e l’Azuni elevato dal Consolato ad alti uffici.
L’Azuni – continua lo Scano – scrisse dell’opera del suo amico affettuosamente più che imparzialmente presentandolo come il più ardente difensore della nazione sarda e leale servitore del regio servizio asserendo che nella carica di alternos, affidatagli dal vicerè si comportò saggiamente, ristabilendo nel Capo Settentrionale l’ordine e la sicurezza (27).
Il Sisternes in alcune sue note scritte nel secondo decennio dell’Ottocento e destinate alla regina Maria Teresa, accusa 1’Angioy di essersi rivolto alla repubblica francese per l’insurrezione del 1795 e di aver voluto rovesciare il governo monarchico per instaurare un regime repubblicano (28).
Il Mimaut (29) esprime sull’Angioy lo stesso giudizio dello Azuni. Il poeta Stanislao Caboni, condensa nel breve ambito di un sonetto il suo pensiero sull’Angioy. Eccolo integrale, mentre Dionigi Scano, nell’opera citata ne riporta solo alcuni versi:
Giovanni Maria Angioy
È questa l’urna che il proscritto serra?
Vo lo spirto evocar che più non mente;
Dímmi: al trono movesti insana guerra,
O agli oppressor d’un popolo fremente?
Ti spinse alto sentire anche d’uom ch’erra
Nel fatal varco o cieca ira impotente ?
Fosti un vile o un Eroe ? La patria terra
T’era, o un poter compro col sangue, in mente?
Cupe mormoran fossa; io vil non fui,
Non traditor, tradito; il cor mi strinse
Della patria, pietà, dei mali sui;
Ma Eroe non pur, ché fermo in mio pensiero
Non prò di man, di cuore, inscio me spinse
Non oltre il Rubicon spinsi il destriero. (30).
Carlo Botta lo chiama il Paoli sardo, definendolo: uomo tanto più vicino alla modesta virtù degli antichi, quanto più lontano dalla virtù vantatrice dei moderni (31).
Il Valery lo dice vittima di patriottismo, forse unica nel nostro secolo (32).
Secondo lo Spano l’Angioy, mandato per sedare i tumulti dei vassalli, quando si persuase degli abusi dei feudatari, innalzò il vessillo dell’emancipazione feudale (33).
L’Angius lo definisce un ambizioso che favorì l’anarchia e che potente per le sue aderenze e per la popolarità, opprimeva il Magistrato e perseguitava gli amici dell’ordine e i devoti al re (34).
Il Manno è più severo: pur riconoscendo che ebbe virtù di ingegno, che fu buon 124 padre e uomo generoso, lo definisce politicante fazioso, al quale si devono gli eccessi della insurrezione del 1795, la morte del Pitzolo e del generale Della Planargia (35).
Il Tola, che nel 1837 ne scrisse una breve ed incompleta biografia con intonazione più che benevola, sei anni dopo s’associa al giudizio del Manno in uno studio apparso nella rivista «La Meteora» (36).
Il Sulis in uno studio assai coscienzioso sui moti politici della Sardegna dal 1795 al 1825, rimasto incompiuto, s’indugia ad esaltare la figura dell’Angioy specialmente per la salda sua costanza nel professare i principi politici del popolare riscatto ai quali sacrò le attitudini della mente, le affezioni del cuore, le azioni della vita, le supreme preghiere in morte (37).
L’Esperson nel 1878 cerca abilmente di giustificare le contraddizioni ed incongruenze che si riscontrano nella condotta del1’Angioy attribuendogli il disegno di un popolare governo, coll’aiuto o non della Francia repubblicana, il che positivamente non consta, e punto non avrebbe gravato la sua posizione politica; salvo, occorrendo di venir in seguito, come dappertutto si operava, a transazione, accettando onesti e civili ordini monarchico-costituzionali (38).
Per il Costa l’Angioy fu un incompreso, non scevro di vizi e di virtù, e l’insurrezione che da lui prese il nome, fu il contraccolpo della rivoluzione dell’89, non un tentativo di codardi ambiziosi e di piccole vendette come scrisse il Manno (39).
Seguendo il Sulis, Raffa Garzia presenta un Angioy, ardente repubblicano e fautore delle massime francesi dell’89 (40).
Il Pola, che nel suo esauriente studio sui moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802 si dimostra critico imparziale dell’operato dell’Angioy, ritiene che alla fine del 1796 le idee politiche dell’agitatore sardo non fossero ancora ben conosciute, non solo, ma che non sussistessero in forma antidinastica, aggiungendo che i moti sardi del 1795 e 1796 ebbero carattere prevalentemente economico-antifeudale e che l’intenzione attribuita all’Angioy di condurre i villici armati a Cagliari per rovesciarvi il governo monarchico e levar la bandiera della repubblica non sia mai esistita (41).
Il Boi, che ebbe il merito di servirsi di documenti inediti tratti dagli archivi di Parigi per il suo studio sull’Angioy, scrive che questi alla soggezione ad un governo pavido e reazionario preferiva per la sua patria un governo, sia pure straniero, ma che agitava nel mondo la fiamma purissima della libertà (42).
Si occuparono dell’Angioy, non di proposito ma incidentalmente, il Bartolucci (43), il Segre (44), il Martini (45), l’Agostini (46), il Bianchi (47), il Deledda (48), il La Vaccara (49), il Mossa (50), il Pittalis (51), il Loddo-Canepa (52) ed altri.
Le avventurose vicende dell’Angioy e soprattutto i suoi mutevoli atteggiamenti suscitarono l’interesse dei nostri storici a cominciare dal Manno. Malgrado ciò, manca una sua piena biografia, giacché tale non può esser considerata nè quella del Tola che astrae dalle più importanti vicende in cui fu implicato l’agitatore sardo né quella del Boi che considera in modo succinto la sua attività dal 1793 in poi. “In questa lacuna – afferma l’Azuni nell’opera già citata prima – sta la ragione di questo studio che non vuol essere nè una condanna nè un’esaltazione e tanto meno una riabilitazione, giacché quando ci si impanca a giudici, facilmente si è portati ad accusare o a difendere secondo le proprie tendenze e simpatie, specialmente se si tratta di persone che agirono in periodi rivoluzionari”.
“Narrando le vicende dell’Angioy – prosegue l’Azuni – ho voluto tener conto di tutti gli elementi che su di esse hanno potuto influire, non esclusi quelli che ad un superficiale esame appaiono superflui, e a tale scopo non solo ho attinto agli studi già fatti, ma ho proceduto a minuziose ricerche in fondi ancora inesplorati di archivi lo cali valendomi anche di numerosi ed inediti documenti tratti da archivi francesi. Ritengo che da questa mia narrazione, del tutto imparziale, la figura dell’Angioy risulti ben definita e lumeggiata. Se il suo operato, equivoco in certe circostanze, si presta a critiche e a suscitare delusioni, non bisogna dimenticare che il ribelle alternos non può e non deve esser giudicato alla stregua dei nostri costumi e dei nostri concetti in fatto di morale. Gli uomini di rivoluzione – e tale era 1’Angioy – non possono essere misurati col metro comune. Dire, per esempio, che egli fu una canaglia e il Pitzolo un virtuoso o viceversa significa non intendere i compiti della storia, riducendola ad una scolastica distribuzione di premi. Certo la figura dell’Angioy, strana ed enigmatica, esaltata e vilipesa a seconda del prisma attraverso il quale la si guardò, ha suscitato e suscita tuttora l’interessamento più intenso e più vivo”.
Per concludere con le valutazioni degli storici, di particolarissimo interesse, pur curvata sul crinale faziosamente conservatore e reazionario, ovvero filofeudale e filobaronale, è la più antica ricostruzione storica del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796) e dunque della figura di Giovanni Maria Angioy: «Storia de’ torbidi occorsi nel regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi».
Si tratta di un’opera anonima e fa parte della ricchissima raccolta di manoscritti della sezione di storia patria della Biblioteca reale di Torino. L’opera è stata pubblicata nel 1994 a cura dello storico sardo Luciano Carta, con presentazione di Girolamo Sotgiu per la Editrice Sardegna (53). “L’analisi sistematica della «Storia» – scrive il curatore Luciano Carta – rivelava inoltre singolari affinità con la Storia moderna di Giuseppe Manno…e faceva nascere il sospetto che quest’ultima poggiasse sulla prima come su un’intelaiatura…alla sostanziale identità di struttura si aggiungeva un altro fonda126 mentale elemento di somiglianza, la singolare corrispondenza della tesi centrale delle due opere, che spingeva a supporre una sorta di dipendenza della Storia Moderna dalla Storia dei Torbidi. Entrambi gli autori infatti ascrivono il motivo di fondo dei moti del 1793-1796 ad una «congiura» ordita dal partito filo-giacobino, tendente a sovvertire l’assetto politico istituzionale della Sardegna, che poggiava sulla monarchia assoluta e sul sistema feudale, per trasformarlo in una repubblica democratica di stampo francese che avrebbe dovuto avere come presupposto necessario l’abolizione del feudalesimo” (54).
Capo del partito giacobino e protagonista della congiura sarebbe stato per l’anonimo estensore della “Storia dei Torbidi” – insieme ad altri – Giovanni Maria Angioy, cui si attribuisce addirittura la responsabilità di essere il “mandante” degli omicidi del Pitzolo – per mano di Ignazio Busa e Andrei de Lorenzo – e del Planargia. Oltre che, naturalmente di essere contro la feudalità e di volere un governo giacobino. Che per l’estensore della “Storia”, sostenitore delle magnifiche e progressive sorti della Monarchia sabauda e baronale, evidentemente era oltre che sovversivo un reato atroce e orrendo.
Angioy nell’immaginario collettivo, nella memoria e nella cultura popolare sarda.
Il grande poeta Sebastiano Satta dedica ad Angioy una sua poesia. Ecco come immagina e canta il “ribelle Alternos” (55)
L’ALTERNOS
Sui campi di Tiesi, in un’alba del giugno 1796
All’alba – il carro d’oro per la via
Lattea scendeva, e un’aquila garria –
Fu visto – o fato! – Don Giovan Maria,
Il ribelle Alternos, qui cavalcare.
L’alto suo sogno, grave di avvenire,
L’impeto fatto di speranze e d’ire,
La forza di chi sorse a maledire
Egli vide dal sommo ruinare.
Errava triste e solo. Per il piano
Fuggiangli l’occhio e l’anima lontano:
Ché ancor vedeva quel suo sogno, invano,
Sui boschi, dietro i monti, balenare.
I monti della patria! Come veli
Di ninfe si svolgevano nei cieli
Le nubi antelucane: gli asfodeli
Svettavano al chiaror crepuscolare.
Or nella gloria di sue rosse aurore,
Cinto di lampi si levava il cuore,
Anelando. Or non più, dentro il fragore
Dell’armi, l’inno, soffio aquilonare!
Non dal pulpito più prete Muroni
-Legato ha il suo ronzino agli arpioni,
E polveroso è ancora, e con gli sproni –
Rugge sui vili, ché non sa pregare.
Non più nel solco del mattino d’oro
Le urgenti turbe! O verde Logudoro,
Di che fiamme avvolgesti il nobil coro,
In ogni ovile e in ogni casolare!
Non più veglie animose fra le gole
Dei salti, e vaste fronti aperte al sole,
Non nei consigli più sensi e parole
Ardenti come fiamma sull’altare.
Ma non questo ribelle alla tempesta,
Se pur stride nel cielo la funesta
Ora dei vinti, la pensosa testa
Sconsacrata saprà, vinto, piegare.
Solo a te, Sarda Terra, come a madre
Egli piega! Le sue vindici squadre
Egli seppe per te scioglier dalle adre
Glebe, e agitarle come nembo il mare.
Tutto fu vano! Oh voci dell’avita
Casa deserta! Oh fiori della vita
Deserta, o figlie! Oh compagnia romita
Dei padri sardi intorno al focolare!
Or l’anima solinga sotto i grigi
Cieli vede l’esilio di Parigi;
Prone le turbe vede, e sui fastigi
Dei monti scender l’ombra secolare.
Un un’anziano poeta di Macomer, Pietro Murgia (ma lui preferisce il sardo Pedru
Murza) mi ha recapitato una sua poesia , inedita, scritta in limba, che riporto integralmente
e di cui io ho rivisto e corretto solo la grafia.
Ad Angioy
Su milli settighentoschimbantunu
est naschidu a Bono in Sardigna
da una mama ‘ona. illustre e digna,
E lu batizant in cussu Comunu.
A nomene l’ant postu Zomaria,
pizinnu sanu e bellu che fiore
coronadu lis benit s’amore
prenande sa domo de allegria.
Cando mannitu, ti mando a iscola
A manu aganzada ti che leo
finzas a che finire s’ateneo
mama non ti lassat a sa sola.
Inie s’andat dae gradu in gradu
C’agatas sos dottos de iscenzia
Impreada sa tua inteligenzia
Mama ti cheret avocadu
128 Avocadu de fama e onores,
de onestade e de balentia
po che ‘ogare custa tirannia
de Ladros e crudeles oppressores.
Cuntenta beneitu l’at sa mama
c’a domo est torradu. magistradu
e Gìuighe onestu e onoradu,
in coro l’est azesa sa fiamma.
Iscriet líteras e quadernos
Ca sempre bada ite imparare
In su mentres s’est bidu nominare
rapresentante sardu Alterno.
Dubiosu Angioy at azetadu
Issu l’aiat bene cumpresu
Ca cosa b’aiat in mesu
Chi Arborea l’aiat preparadu
Su vicerè ischit de sa circolare
E faghet ‘ettare sos pregones
Chi non tocherant contes e barones
Ca issos solu depent comandare
Sa die ‘e Sant’Andria vintitres
A sos contes non piaghet sa tesi
Si ‘ortat Bessude, Cheremule e Thiesi
de non pagare tassas a viceres
Angioy da-e Caralis est partidu
Su treighi de frearzu s’aviat
Sa zente in caminu creschiat
E finas a Tatari l’ant sighidu
Sos prodes de totu sa costera
E sos Bonesos suos paesanos
Cun furchiddas e cavanas in manos
Pro c’’ogare sa zente forestera
Istamentas e viceres a foras
Totu traitores e tirannos
Isfrutadores da-e medas annos
Cussa zente mala e traitora
Da-e Bonorva caminant cun lestresa
Attraessende in su Logudoro
Pro giompere a sa ‘idda tataresa
Armados de coraggiu ant su coro
Su vintichimbe de su mese ‘e Nadale
In Tatari leadu n’ant sentore
Tuccat a boghes su banditore
Tancant Gianna barcone e portale
In su casteddu ant sos cannones
Chi ant cuminzadu a isparare
Ma su populu sighit a aboghinare
A foras contes marcheses e barones !
Creiant chi l’aiant fatta franca
Poi chi at passadu tantas oras
Aperint sas giannas e nd’essit foras
Arzende in manos bandela bianca
A Angioy l’an resu sos onores,
totu sa idda l’at acclamadu
ca su populu at liberadu:
tribagliantes, massagios e pastores
De lampadas su duos de su mese
Cheret faghere a Karalis tucada
Ma ainie non faghet arrivada
In Aristanis firmadu at sos pees.
Prima de arrivare a Campidanu
In Macumere est devidu passare,
però inie, invece de1’ azuare,
l’ant gherrada a manu a manu.
129
E bat bistadu mortos e feridos
E parizos sunt ruttos in terra,
ma luego ant finidu sa gherra
e adaboi sin-de sunt pentidos.
Passados sunt in Settefuentes
Attraessende montes, baddes e serra.
Arrivados che sunt a Munterra
Sighinde su caminu e sos molentes.*
In tottue serradu l’ant sa gianna
In Casale abertu l’ant su portone
Pero pro che lu ponnere in presone,
e a morte est bistada sa cundanna.
Su die vintiduos de Nadale
Lu liberat Felice Rubatta,
a che lu ‘ogare fora bi l’ha fatta
bestidu de franzesu uffiziale.
Zomaria in Franza ch’est andadu
* Mulattiera che va verso l’oristanese
11. Conclusioni
Ritenendola estremamente interessante e originale ecco la valutazione, storica e politica che di Giovanni Maria Angioy esprime nel suo ultimo saggio (56) l’intellettuale e scrittore di vaglia, Eliseo Spiga:
“A Giovanni Maria Angioy restò purtroppo poco tempo per assimilare la notevole forza contrattuale accumulata dalle ville con le loro rivolte e rivendicazioni, per riflettere sui fatti che gli venivano addosso e per dare sbocco politico adeguato all’intero movimento rivoluzionario. Subito dopo il fallito tentativo di marciare da Sassari a Cagliari per recuperare le posizioni perdute a causa del suo incarico di Alternos, si trovò dentro un intrico di contraddizioni malafede e tradimenti che nessun genio della rivoluzione sarebbe stato capace di districare. La su stella che per un attimo accennò a brillare, fu inghiottita dal buio.
Fuggiasco, esule, incarcerato a Casale dal governo piemontese, nuovamente fuggiasco e ancora esule, perì a Parigi, povero, abbandonato dalle due figlie adorate, all’età di cinquantasette anni, il 22 marzo del 1808. La sua tomba dovrebbe trovarsi nel cimitero di Pere-Lachaise, dove sono ricordati i sedicimila comunardi fucilati nel 1871, ma amici che recentemente l’hanno cercata non sono riusciti a trovarla. Il Consiglio regionale della Sardegna, associandosi all’oblio colpevole che avvolge Giommaria, s’è ben guardato durante i suoi cinquant’anni di vita dissipata dal cercare la tomba dell’Esule per riportarla nella sua terra. Come s’è ben guardato, del resto, dal riportare nell’Isola, le ceneri degli altri due Grandi della sua storia moderna, Antonio Gramsci ed Emilio Lussu.
Un sindaco di Cagliari, non so chi, non ha dimenticato ma ha voluto infliggere all’Angioy un’offesa bruciante intestando la strada più importante al carnefice degli angioiani, Carlo Felice, vicerè e re, ottuso e sanguinario, e rinchiudendo il glorioso Alternos in un oscuro budello parallelo.
Ripensando a questa figura tragica non posso non ammettere, tuttavia, che essa testimonia un gran fallimento dei sardi. II fallimento del progetto di interpretare la modernità in chiave sarda di volerne essere inventori e protagonisti. E che rappresenta l’ambiguità, la lacerazione, della nostra coscienza moderna, quel desiderare la modernità senza rinunciare completamente alle tradizioni, all’identità.
Il Giudice di Bono era uomo di scienza e di varia cultura, uomo politico e imprenditore d’avanguardia. Sono note le sue iniziative, nelle quali profondeva molto danaro e grande fervore innovativo, per la coltivazione del cotone, per la sua sgranellatura e filatura, e il suo impegno nella fabbrica di berretti e guanti. Iniziative di tanto successo da far dire al viceré che avrebbe voluto chiamarle L’aurora del Regno per la nuova luce che esse annunziano alle arti, alle manifatture e al commercio.
Si annuncia, invece, l’invasione francese della Sardegna e Angioy viene risucchiato dalla politica. Egli è certamente al corrente di quanto sta avvenendo nella Repubblica rivoluzionaria, conosce e anche condivide le idee di grande cambiamento che vi si agitano. La formazione del suo pensiero politico, però, avviene direttamente sul campo, a contatto con i tumultuosi avvenimenti del periodo. In questo modo dev’essere nato anche il suo orientamento verso una repubblica giacobina sarda.
La repubblica sarebbe stata certamente consona ai tempi. Anche necessaria per sgomberare il terreno dalle strutture feudali e per sciogliere la pigrizia dei ceti possidenti, aristocratici e borghesi, in un grande progetto di modernizzazione dell’Isola, che era allora, e sempre così restò, poco più che una aspirazione mai tradotta in prospettiva realmente perseguibile.
L’instaurazione della repubblica sarda, forse, sarebbe potuta venire soltanto mediante l’intervento armato dei francesi, ripetutamente sollecitato dall’Angioy. I francesi erano sì interessati alla Sardegna, per le sue ricchezze e per la posizione nel Mediterraneo, ma propendevano più per l’annessione che per una autorità repubblicana autonoma.
L’intervento esterno era impossibile anche perché, rievocando i fantasmi degli ammiragli Truguet e Lautouche, avrebbe riattizzato lo spirito d’indipendenza dei sardi. In ogni modo, niente di tutto questo successe mentre accadde che reazionari e moderati, invece di accettare il compromesso proposto dal giacobino di Bono, gli puntarono in faccia le armi e la forca.
Anche i contadini abbandonarono Giommaria al suo truce destino. Pronti a seguirlo in armi nella lotta contro i baroni se la squagliarono quando cominciò ad apparire logicamente ineluttabile il trapasso alla repubblica. In fondo, diffidenti com’erano nei confronti di qualsiasi forma di potere, perché avrebbero dovuto credere in una minore crudeltà del governo dei signori borghesi repubblicani rispetto a quella del governo aristocratico e monarchico? Non è sintomatico che il lunghissimo inno antifeudale di Francesco Ignazio Manna, la marsigliese sarda, non dedichi neppure un verso alla ipotizzata repubblica sarda? Non era già accaduto in Francia che i contadini si levassero contro il capitalismo invadente? Non sarebbe accaduto, di lì a qualche anno, che i contadini campani si levassero contro i signori giacobini partenopei sospettati di volersi impadronire delle terre feudali?
Un altro ostacolo, grosso e non previsto, si parò alle porte di Macomer davanti a G. M. Angioy in marcia verso Cagliari. A Macomer, paese di pastori, gli fu precluso l’ingresso, ma le sue truppe, circa seicento uomini mal organizzati e mal diretti, entrarono con la forza facendo morti e feriti e saccheggiando il paese quasi che fosse di nemici. E da Bortigali, altro paese di pastori, giunse presto notizia che un numeroso gruppo di uomini armati si sarebbe opposto al suo passaggio.
A Macomer l’Angioy dovette rendersi conto, se non se n’era accorto prima, che nella rivoluzione sarda c’era l’assenza pericolosa dei pastori, di una parte, cioè, non trascurabile della gente delle campagne e delle montagne. Assenza che non era da attribuirsi a indifferenza ma all’atteggiamento sospettoso e guardingo dei pastori. Certamente i giacobini sottovalutarono la loro forza e influenza e poco comprendevano la complessità del problema della terra. O, forse, c’era già l’intenzione e la predispozione del fronte urbano a risolvere la questione della terra contro i pastori.
In tutti i casi, l’assenza o la contrarietà dei pastori significavano la grave mutilazione della rivoluzione sarda.
E vero, probabilmente, che i pastori soffrivano di meno l’oppressione feudale ma è allo stesso tempo vero che le recinzioni già iniziate, alla chetichella, dai prinzipales non potevano non allarmare i sostenitori della libertà di pascolo, delle terre aperte e comuni. Da qui l’opposizione o almeno la diffidenza nei confronti della temuta rivoluzione giacobina.
A me pare di poter vedere, al di là delle ragioni immediate dell’atteggiamento dei pastori, una fiammata, un cortocircuito, della contrapposizione storica tra la Sardegna delle montagne e la Sardegna delle pianure. Tra la Sardegna delle repubbliche montanare, le comunità in tutto o in parte autoamministrate, che non hanno proprio bisogno di una repubblica politicamente segnata. E la Sardegna provincia del regno o dell’impero e da questo o da quello sempre più dipendente. Tra la Sardegna legata 132 alla tradizioni ancestrali e la Sardegna sbattuta dal cambiamento.
Mi conforta Maurice Le Lannou, un vecchio conoscitore di cose sarde e mediterranee.
In un suo brillante saggio rileva che nel Mediterraneo “il conflitto tra novità e tradizione è sempre segnato dal marchio della brutalità. Che contro l’aggressione della novità, i popoli mediterranei hanno alzato un limes, un bastione di saggezza, se si può chiamare così un’arte di vivere contro cui si infrangono o, almeno, si deformano le offensive della modernità. E che la saggezza mediterranea collochi il genere di vita al di sopra dell’economia e il ben di Dio al di sopra del profitto tende a dimostrarlo la storia di alcune regioni già popolate e attive ma ormai ai margini del mondo industriale”.
Che i sardi, non per niente mediterranei, abbiano anch’essi tentato di alzare un bastione di saggezza contro la modernità incombente? Che abbiano presentito nella modernità una minaccia al loro modo di vivere e allo scopo del loro vivere? Che sia questa la ragione profonda, ultima, del fallimento della rivoluzione angioyana, anche se restano evidenti le gravi manchevolezze dei giacobini e i tradimenti e la vigliaccheria dei moderati?”