Il fascismo e gli italiani.
A distanza di oltre 75 anni dalla sua caduta, il tema del fascismo in Italia è ancora oggetto di furibonda polemica e non pare ancora possibile affrontarlo con il dovuto equilibrio. La mia impressione è che ci troviamo di fronte ad un tabu frutto di una sorta di rimozione collettiva. Il fascismo è stato un fenomeno complesso che non può essere catalogato in quanto assolutamente unico nel suo genere e risulta oltremodo fuorviante continuare ad analizzarlo applicando categorie e parametri incoerenti. La sonora bocciatura che la Storia ha emesso sul fascismo ha di fatto innescato il notissimo meccanismo della damnatio memoriae, che poi altro non è che il principio millenario secondo il quale la Storia è sempre riscritta dai vincitori, che all’indomani della caduta del fascismo si moltiplicarono d’incanto e a dismisura.
Una delle grosse difficoltà nel capire il fascismo deriva essenzialmente dal fatto che, come affermato dallo storico De Felice e dal giornalista Indro Montanelli , il fascismo non è stata una vera ideologia, ma l’emanazione diretta della volontà e della personalità di un uomo, Benito Mussolini, che ideologicamente si ispirava in gioventù al socialismo, ma che nel concreto ha governato il paese in modo paternalistico applicando nei primissimi anni una filosofia liberalista, poi protezionista, corporativistica ed infine dai connotati sociali, con il minimo comun divisore del partito unico totalitario ovviamente fascista. Il fascismo quindi è stato nel concreto il divenire della linea politica del suo capo carismatico e mai l’espressioni dei cosiddetti fasci, mal tollerati da Mussolini e inquadrati da subito in una milizia al fine di poterne esercitare un qualche controllo.
Andiamo al punto. Una delle più grandi semplificazioni e mistificazioni dei commentatori consiste nel considerare il fascismo come il risultato dell’iniziativa di un manipolo di squadristi con a capo Benito Mussolini che avrebbe di fatto compiuto un colpo di stato per poi instaurare una dittatura mentre invece, che piaccia o non piaccia, le vicende storiche di quel tempo ci raccontano di un fascismo quale risposta di larga parte della società italiana per porre fine ad un lungo periodo di grave e crescente tensione politica e sociale (durante l’ultimo governo Facta più di un analista vi intravedeva persino il baratro della rivoluzione bolscevica), Nella realtà quindi Il fascismo è stata una lunga parentesi della politica italiana che, al pari di altre esperienze quali la monarchia costituzionale, il liberalismo giolittiano, i governi monocolore della Democrazia Cristiana, il compromesso storico degli anni 70 del novecento, il pentapartito è oggi non replicabile, irripetibile, improponibile e non solo per i suoi contenuti non democratici, ma anche e soprattutto perché dopo un secolo sono cambiate sensibilità, culture, situazioni storiche, rapporti di forza istituzionali, per non parlare della mutatissima situazione internazionale
Fatta questa premessa e posto che il fascismo è stato un fenomeno che per essere spiegato per intero necessiterebbe di un vero e proprio trattato e non già di un umile articoletto, vorrei in questa occasione limitarmi a spiegare come il fascismo fosse entrato a far parte della normalità italica e quanto questo pesasse nella vita dei singoli cittadini e come al fascismo avessero aderito (e non sempre obtorto collo) esponenti di primo piano della vita economica e culturale italiana, la medesima classe dirigente che avrebbe poi contribuito in prima linea alla costruzione della nuova Repubblica Italiana che ha fatto dell’antifascismo in Costituzione la sua imprescindibile premessa.
Uno sguardo attento alle cronache e documenti ufficiali del ventennio ci dicono che furono tantissimi gli esponenti di spicco della cultura italiana che aderirono più o meno convintamente al fascismo facendone pubblica fede.
Il numero di intellettuali che aderirono al regime, ma che alla sua rovinosa caduta giurarono inimicizia eterna, fu clamoroso. Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 e chiuse solo il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.
Veniamo ad altri esempi concreti, Il poeta Giuseppe Ungaretti. che scrisse che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Alla fine della guerra si presentò come alfiere dell’antifascismo.
La vicenda del valente filosofo Norberto Bobbio è arcinota. Da studente si era iscritto al Gruppo Universitario Fascista e poi aveva mantenuto la tessera del partito anche durante l’insegnamento. A cause di frequentazioni non sempre ortodosse fu raggiunto da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai «con devota fascistica osservanza». Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto Bobbio ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un punto di riferimento della sinistra riformista. In una clamorosa intervista rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio dichiarò : «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo”.
Notissima e pubblica la lettera scritta da Bobbio a Mussolini che qui riporto:
«Torino, 8 luglio 1935 XIII Eccellenza! Vostra Eccellenza vorrà perdonarmi se oso rivolgermi direttamente a Lei, ma la cosa che mi riguarda è di tale e così grande importanza che non credo vi sia altro mezzo più adatto e più sicuro per venire ad una soluzione. Io, Norberto Bobbio di Luigi, nato a Torino nel 1909, laureato in legge e in filosofia, sono attualmente libero docente in Filosofia del Diritto in questa R. Università; sono iscritto al P.N.F. e al Guf dal 1928, da quando cioè entrai all’Università, e fui iscritto all’Avanguardia Giovanile nel 1927, da quando cioè fu istituito il primo nucleo di Avanguardisti nel R. Liceo d’Azeglio per incarico affidato al compagno Barattieri di San Pietro e a me; per un’infermità infantile, che mi ha lasciato l’anchilosi della spalla sinistra, sono stato riformato alla visita militare e non ho mai potuto iscrivermi alla Milizia; sono cresciuto in un ambiente familiare patriottico e fascista (mio padre, chirurgo primario all’Ospedale S. Giovanni di questa città, è iscritto al P.N.F. dal 1923, uno dei miei due zii paterni è Generale di Corpo d’Armata a Verona, l’altro è Generale di Brigata alla Scuola di Guerra); durante gli anni universitari ho partecipato attivamente alla vita e alle opere del Guf di Torino con riviste Goliardiche, numeri unici e viaggi studenteschi, sì da essere stato incaricato di tenere discorsi commemorativi della Marcia su Roma e della Vittoria agli studenti delle scuole medie; infine in questi ultimi anni, dopo aver conseguito la laurea in legge e in filosofia, mi sono dedicato totalmente agli studi di filosofia del diritto, pubblicando articoli e memorie che mi valsero la libera docenza, studi da cui trassi i fondamenti teorici per la fermezza delle mie opinioni politiche e per la maturità delle mie convinzioni fasciste. Il 15 maggio di quest’anno sono stato perquisito dalla polizia politica (perquisizione che fu anche estesa a mio padre e a mia madre) e per quanto la perquisizione non abbia trovato nulla di importante fui arrestato e tenuto in prigione per sette giorni in attesa di un interrogatorio; dopo un interrogatorio di pochi minuti, di cui si è steso verbale, fui subito rilasciato. Tutto questo avvenne senza che mi si dicesse mai quali erano i motivi che avevano condotto a questi provvedimenti a mio carico, dal momento che nell’interrogatorio non mi furono opposte specifiche accuse, ma mi furono semplicemente chieste informazioni sulla conoscenza che risultava io avessi di persone non fasciste, domanda a cui io risposi, com’è scritto nel verbale, che «essendo miei compagni di scuola o miei coetanei, non potevo fare a meno di conoscerli», e mi fu quindi chiesta la ragione per cui avevo collaborato alla rivista «La Cultura», fatto di cui ho dato giustificazione in una lettera del 27 di giugno, richiestami da S. E. Starace, attraverso la Federazione di Torino. Avevo legittime ragioni per credere che la questione incresciosa fosse risolta, quando oggi ricevo intimazione di presentarmi il giorno 12 corrente davanti alla Commissione provinciale della Prefettura per presentare le mie discolpe, «esaminata la denuncia di ammonizione […] visti gli atti relativi da cui risulta che con la sua attività svolta in unione a persone deferite di recente al Tribunale Speciale per appartenenza alla setta ‘giustizia e libertà’, si è reso pericoloso agli ordinamenti giuridici dello Stato». Ignoro quali siano gli atti da cui possa risultare tutto questo complesso di accuse, dal momento che risultarono negative a mio riguardo sia la perquisizione, sia l’interrogatorio; né posso credere che possa costituire valido argomento di accusa la perquisizione fattami di una fotografia del dott. Leone Ginzburg in data 1928 (quando entrambi avevamo 19 anni, nel periodo in cui eravamo compagni di scuola); né tanto meno la collaborazione da me prestata (collaborazione che si riduce ad una recensione pubblicata nel numero di marzo di quest’anno) alla rivista «La Cultura», che è una delle più antiche e note riviste letterarie italiane, dal momento che questa collaborazione non poteva celare per evidenti motivi, né da parte mia né da parte di coloro che mi invitavano a collaborare, nessun sottinteso politico, ma dimostrava semplicemente in me il desiderio di cooperare modestamente ed onestamente ad un’attività culturale pubblicamente apprezzata e controllata. Dichiaro in perfetta buona fede che l’accusa su riferita, che non è soltanto nuova ed inaspettata ma anche ingiustificata, date le risultanze della perquisizione e dell’interrogatorio, mi addolora profondamente e offende intimamente la mia coscienza fascista, di cui può costituire valida testimonianza l’opinione delle persone che mi hanno conosciuto e mi frequentano, degli amici del Guf e della Federazione. Rinnovo le mie scuse a Vostra Eccellenza se ho presunto di voler fare giungere sino a Lei le mie parole, ma mi ha spinto la certezza che Ella nel Suo elevato senso di giustizia voglia fare allontanare da me il peso di un’accusa, a cui la mia attività di cittadino e di studioso non può aver dato fondamento e che contrasta con quel giuramento che io ho prestato con perfetta lealtà. Le esprimo il sentimento della mia devozione. Norberto Bobbio Torino, via Sacchi 66» |
(Copia conservata all’ACS, Ministero Interno, Direzione generale di P.S., Divisione AA.GG.RR., sez. 1, Confino, registrata il 18 luglio 1935, protocollo n. 710-11647, col titolo «Esposto di Norberto Bobbio a S. E. il capo del Governo») |
Indro Montanelli, che considero personalmente un riferimento del genuino pensiero liberale italiano, non ha fatto mai mistero di essere stato fascista.. «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione e non perdo occasione per ricordarlo, ma anche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».
Un altro grande uomo di cultura italica che rappresenta molto bene questo quadro di un’Italia poco casualmente fascista è Giorgio Bocca che ha affermato «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo…». Egli stesso scrive nel racconto «La sberla e la bestia» pubblicato l’8 gennaio 1943 su La provincia granda , foglio d’ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion , che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita, scrivendo tra l’altro: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo…». E poi: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».
Un altro esponente insospettabile, una vera e propria risorsa del teatro italiano, Dario Fo, si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977 un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord , pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, dichiarò: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…». Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.
Eugenio Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l’economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti».
Enzo Biagi collaborò a Primato e nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, recensì il film Süss l’ebreo , formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L’assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, . Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.
Andrea Camilleri, poco piu’ che ragazzino, scrisse a Benito Mussolini per chiedere di partire volontario in Africa. Alla fine degli anni Trenta, alla vigilia dei 14 anni, prese carta e penna e dalla natia Porto Empedocle (Agrigento), mando’ una lettera al Duce facendogli presente il suo desiderio di partecipare alla guerra in Abissinia. E’ stato lo stesso scrittore, con una lunga militanza nel Pci alle spalle, a rivelare questo suo peccato di gioventu’ durante un affollato incontro alla Fiera del Libro di Torino, dove e’ stato uno dei primi ospiti d’onore.
Sono quindi innumerevoli gli esempi a sostegno di quanto vado cercando di spiegare e sono solo la punta dell’iceberg di una società, quella italiana, per la gran parte impegnata a compiacere e sostenere fattivamente il fascismo, che iniziò la sua vera parabola discendente con l’approvazione delle vergognose leggi antisemite che segnarono un punto di rottura con la storia ed il sentimento popolare. Invero l’approvazione di queste leggi, oltre che a generare la giusta reazione di parte dell’opinione pubblica, sono state da molti interpretate come un primo segnale di debolezza politica del fascismo, preoccupato di allineare la pratica politica alla perniciosa cultura nazista.
La verità è che le leggi razziali italiane del 1938 furono una macchia indelebile sul fascismo e sui tanti che nulla fecero per opporsi. E’ vero che l’Italia rappresentò l’esempio forse più morbido di razzismo, ma ciò non può cambiare il giudizio di fondo verso il governo Mussolini, pur considerando l’argomento con un atteggiamento di indagine storica il più possibile. non viziato da pregiudizi ideologici.
Mi chiedo oggi se l’antisemitismo ha trovato ancora terreno fertile anche dopo i tragici fatti della seconda guerra mondiale. La mia testimonianza personale mi porta alla mia infanzia, quando percepivo in alcuni ambienti cristiani la non troppo velata accusa agli ebrei di essere i responsabili morali dell’uccisione di Gesù e per avvalorare questa accusa il nome dell’apostolo che perpetrava il grande tradimento veniva indicato guarda caso in quello di Giuda, in curiosa assonanza con il termine Giudeo, sbrigativamente tradotto dalle culture antisemitiche con il termine ebreo. Questo ricorrente elemento di accusa si somma storicamente ad altri tra cui quello di usura e quello, paradossale, di imperialismo (paradossale in quanto spesso proveniente da Stati e culture che davvero imperialiste e colonialiste lo sono state). Devo ammettere che enormi passi avanti sono stati poi compiuti dalla Chiesa Cattolica Romana, a partire dal Concilio Vaticano Secondo, per non parlare della celebre e bellissima frase di Giovanni Paolo II che parlò degli ebrei come “fratelli maggiori”, un’efficace definizione che ha contribuito fortemente a ristabilire tra i cristiani ed il popolo ebreo un grande rispetto reciproco.
Tornando alla questione delle leggi razziali bisogna riconoscere che di fatto la persecuzione ebraica e le più generali leggi razziali furono rese possibili dall’indifferenza e dalla complicità di grandi parti della società, specie in Francia ed in Polonia, finendo l’Italia per apparire tra quelle in cui meno vi è stato razzismo. Ovviamente con ciò non si vuole in alcun modo attenuare le gravi responsabilità storiche del fascismo, ma semplicemente ristabilire la verità storica indiscutibile sulla grossolanità di chi accosta, per semplificazione ideologica, il fascismo al nazismo, due fenomeni assolutamente diversi. E in effetti in Italia la situazione era invece del tutto diversa rispetto a quella tedesca
Il Fascismo non fu ideologicamente razzista e nella carta di Piazza San Sepolcro del 1919, vero e proprio manifesto ideologico cui s’ispirò il Fascismo nelle sue tre fasi – movimento, regime e sociale – di razzismo non vi è traccia.
Mussolini stesso ebbe a dichiarare in più occasioni che in Italia non esisteva una questione ebraica e guardò criticamente alle teorie hitleriane. Nel ’34 a Bari il Duce affermò: «trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe…»
Improvvisamente (in verità qualche accenno vi fu nel corso dell’anno precedente) nel 1938, a seguito di una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre, furono emanate le famigerate e mai tanto deprecate leggi razziali la cui essenza tuttavia, essendo di natura spirituale, mirava ad emarginare gli ebrei senza perseguitarli, contrariamente a quanto avveniva in Germania, in Europa orientale e, in maniera strisciante, in alcune democrazie occidentali.
Va evidenziato che l’opinione pubblica, soprattutto quella cattolica, non fu del tutto ostile al quel provvedimento considerate le 360 firme apposte al “Manifesto per la difesa della Razza” da parte di intellettuali e scienziati di estrazione cattolica ed anche di autorevoli esponenti della Chiesa e del cattolicesimo come il fondatore dell’Università cattolica Padre Agostino Gemelli, Luigi Gedda, storico presidente dell’Azione Cattolica, e il futuro leader democristiano Amintore Fanfani.
In definitiva tale provvedimento, che oggi ci appare aberrante, all’epoca fu accolto con indifferenza quasi fosse un fatto normale, a causa di quel diffuso antisemitismo e razzismo ben radicati in tutti i paesi occidentali (non dimentichiamoci che negli stessi anni in America i neri erano pesantemente discriminati e organizzazioni paramilitari razziste come il Klu Klux Klan ampiamente tollerate).
Come ho affermato all’inizio Il termine nazismo viene spesso identificato con il termine fascismo. . Aspetti simili tra i due regimi furono l’organizzazione totalitaria dello Stato, l’avversione per i movimenti socialisti e comunisti, l’irredentismo territoriale e la teoria economica di base.
Ma nelle origini ci sono differenze molto significative. Il principio di totalità nel nazismo proviene dalla razza, mentre lo Stato è il mezzo per realizzarne la purezza. Nel fascismo è lo Stato il principio totale, non mezzo, ma fine esso stesso. Come afferma Eugene Davidson “mentre il fascismo mise il partito al servizio dello stato, il nazismo capovolse la visione politica mettendo lo stato al servizio del partito”, anche perché, mentre Mussolini doveva rispondere ad un sovrano del proprio operato in qualità di primo ministro, dal 1934 Hitler assunse sia la carica di primo ministro che di presidente del Reich e non doveva rispondere ad alcuno delle proprie azioni (Mussolini – come poi avvenne – poteva esser sfiduciato e costretto alle dimissioni, ma Hitler era costituzionalmente inamovibile).
Il nazismo fu difatti radicalmente razzista fin dai suoi inizi, mentre con Benito Mussolini il fascismo farà proprie la teorie sulla razza solo nel 1938, nel momento in cui diventerà subordinato all’alleanza con Hitler, sebbene i tratti del razzismo nei confronti di alcune popolazioni (per esempio africani e slavi) fossero ben presenti fin dal suo affermarsi. Nel nazismo il principio unificatore era biologico, nel fascismo prettamente ideologico. Il nazismo interpretava la storia alla luce dell’appartenenza etnica a un non meglio identificato ceppo ariano, il fascismo si ispirava invece alla grandezza dell’Antica Roma.
La parabola discendente del fascismo fu sicuramente accelerata da questi fatti, dalla scelta di stare affianco all’alleato tedesco, dalla scelta di abbandonare il rapporto sino ad allora fecondo e privilegiato con l’Inghilterra, in contrasto con la linea politica di Galeazzo Ciano, che pagò con la vita il suo sostegno all’ordine del giorno Grandi con il quale il Gran Consiglio destituì (attraverso la sfiducia) Mussolini dalla carica di Capo del Governo
E sarà da questo momento che gli italiani inizieranno a sentirsi un po’ antifascisti e dopo pochi mesi quasi più nessuno avrebbe mai detto di esserlo mai stato.