Il principio di autodeterminazione dei popoli nel diritto internazionale e la questione sarda.
(Articolo ancora in bozza) In un’epoca nella quale è facile avvertire un certo affievolimento di quella regola aurea secondo cui ogni materia andrebbe affrontata con un certo rigore scientifico, ho sentito pressante l’esigenza di fare il punto su un principio a me così caro: quello dell’autodeterminazione dei popoli. Ciò che vorrei fare emergere è che si dovrebbe fare una distinzione, assolutamente non polemica, tra principio e diritto, tra la teoria e la prassi, con la finalità di sgombrare il campo da equivoci che non aiutano a dipanare concretamente i problemi sollevati da almeno due secoli dalla c.d. questione sarda. Per fare questo intendo muovermi su più piani: quello giuridico, quello storico ed infine quello politico, il vero nodo attorno al quale tutto ruota. Sottolineo che in questo caso l’argomento è affrontato solo ed esclusivamente sotto il profilo del diritto internazionale al fine di comprendere in quali casi possiamo indicare come esistenti i presupposti giuridici per la formazione di una nuova entità statuale. I
Nell”enciclopedia Treccani Il principio di autodeterminazione dei popoli viene definito come quel principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna). Il principio è emerso con prepotenza durante la Rivoluzione francese e poi sostenuto, con diverse accezioni, da statisti quali Lenin e Wilson, e implica la considerazione dei diritti dei popoli, in contrapposizione a quella degli Stati intesi come apparati di governo. In tal senso, si pone potenzialmente in conflitto con la concezione tradizionale della sovranità statale; la sua attuazione deve inoltre essere contemperata con il principio dell’integrità territoriale degli Stati. Di fatto, a mio parere, proprio il principio di autodeterminazione dei popoli fa emergere in tutta la sua evidenza la grande contraddizione dell’eredità della rivoluzione francese, nata per promuovere la democrazia dal basso e la partecipazione del popolo alla vita democratica delle nazioni, ha finito per essere la miccia per la creazione dell’impero francese e ha posto solide ed imperiture basi per la formazione degli Stati moderni contraddistinti dall’accentramento del potere amministrativo e politico.
Affermato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55), il principio di autodeterminazione dei popoli è ribadito nella Dichiarazione dell’Assemblea generale sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960); nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966); nella Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970, che raccomanda agli Stati membri dell’ONU di astenersi da azioni di forza volte a contrastare la realizzazione del principio di autodeterminazione e riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione.
Nel diritto internazionale, l’affermazione dell’autodeterminazione dei popoli – frutto di un processo graduale a lungo contrastato dai paesi occidentali e fortemente collegato, nella prassi, all’efficace azione dell’ONU a favore della completa decolonizzazione – è ormai acquisita sul piano consuetudinario limitatamente i tre specifiche fattispecie, qualificate come crimini internazionali: la dominazione coloniale, l’occupazione straniera e i regimi di segregazione razziale (apartheid) o altrimenti gravemente lesivi di diritti umani fondamentali. In altre parole il principio è enunciato con enfasi, ma si ritiene applicabile ai casi tassativamente indicati, per cui qualunque popolo/nazione, che non provi di essere vittima concreta di uno dei tre gravi crimini internazionali sopra riportati, di fatto non può godere di alcuna tutela nel perseguimento della propria agognata autonomia.
Nella Storia recente la comunità internazionale ha tenuto un atteggiamento piuttosto ondivago sul principio in parola. Nel parere sul Kosovo, la Corte internazionale di giustizia in una prima fase non si è pronunciata sul diritto all’autodeterminazione della popolazione kosovara come rimedio alle politiche di repressione portate avanti dal Governo di Belgrado durante gli anni Novanta. Tuttavia, dal procedimento consultivo, emergeva che tra i più di 40 Stati che hanno partecipato al procedimento davanti alla Corte, 13 di questi affermavano il diritto alla secessione rimedio (traduzione letterale dal termine anglosassone) come fondamento giuridico delle pretese kosovare . Lo stesso Piano Ahtisaari, che nel 2007 aveva promosso la soluzione di un Kosovo indipendente sotto supervisione internazionale, prendeva atto del clima di ostilità e di sfiducia nei confronti del Governo di Belgrado in conseguenza delle repressioni dell’era Milosevic e, quindi, faceva propria la necessità di una separazione dalla Repubblica di Serbia. D’altra parte è stato significativo il numero degli Stati che, invece, hanno fermamente negato l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione “post-coloniale” e sostenuto la prevalenza del diritto all’integrità territoriale degli Stato, come anche si è registrato da parte della Corte suprema canadese nel parere sul Quebec un ulteriore freno alle spinte secessioniste. . La Corte internazionale di giustizia, invece, in un passo del proprio parere, ha limitato l’ambito di applicazione soggettiva del principio di integrità territoriale, affermando che esso sarebbe “confinato” alle relazioni tra Stati e revocando, quindi, in dubbio che il diritto stesso al mantenimento dei confini internazionalmente riconosciuti possa essere opposto a gruppi non statali che ambiscano alla separazione
Quindi pare di poter affermare, anche confrontando altre fonti, che nel diritto internazionale, l’affermazione dell’autodeterminazione dei popoli – frutto di un processo graduale a lungo contrastato dai paesi occidentali e fortemente collegato, nella prassi, dell’azione dell’ONU a favore della completa decolonizzazione– è ormai acquisita sul piano consuetudinario limitatamente ai tre specifiche fattispecie, qualificate come crimini internazionali: la dominazione coloniale, l’occupazione straniera e i regimi di segregazione razziale (apartheid) o altrimenti gravemente lesivi di diritti umani fondamentali.
Lo Stato, secondo la definizione offerta dalla dottrina più autorevole, è un ente dotato di personalità giuridica che si contraddistingue per la sua indipendenza verso l’esterno nonché per la presenza di un Governo effettivo che controlli in modo stabile la popolazione stanziata in un dato territorio. Lo Stato come soggetto dell’ordinamento internazionale tende quindi a coincidere con l’organizzazione politica della comunità territoriale, ovvero, con l’apparato di governo . La definizione di Stato ai fini del diritto internazionale è quella che considera gli Stati come enti complessi e assimilabili alle persone giuridiche di diritto civile, in realtà per il diritto internazionale altro non rappresentano ciò che le persone fisiche sono per il diritto interno: persone costituenti la base sociale della comunità internazionale, così come gli individui sono base sociale delle comunità nazionali.
E’ in questo quadro che dev’essere fatta una valutazione fattuale, tecnica e giuridica della secessione, un fenomeno che consiste nella separazione di uno Stato da un altro per formare una nuova entità o per aggregarsi ad uno Stato già esistente. Posta questa definizione, di particolare interesse può rivelarsi il concetto di secessione rimedio (sempre nell’accezione data dalla traduzione del termine anglofono o meglio amglossassone già citato) ponendo attenzione all’accertamento dell’esistenza (o meno) di un diritto alla secessione come rimedio alle violazioni dei diritti di un popolo.
Bisogna prima di tutto operare una netta distinzione tra secessione e diritto alla secessione, poiché ricorre la secessione quando una parte di uno Stato decide di separarsi da un altro per divenire uno Stato indipendente o per aggregarsi ad uno Stato già esistente: sotto questo profilo è ovvio che la secessione è una questione di fatto e non di diritto. Parlare di diritto alla secessione evoca invece un problema su cui la dottrina si è abbondantemente pronunciata, ovvero il controverso rapporto intercorrente tra autodeterminazione ed integrità territoriale degli Stati riconosciuti dalla comunità internazionale. Taluni autori sul punto non hanno mancato di far rilevare come nel corso dell’ultimo secolo questo genere di conflitti abbia visto prevalere il diritto degli Stati a vedere rispettata la propria integrità territoriale con il conseguente obbligo da parte degli altri Stati di rispettare l’inviolabilità dei confini. Riconoscere l’esistenza di un diritto alla secessione, secondo alcuni, sarebbe possibile allorquando sussistano una serie di esigenze di carattere umanitario e, quindi, la protezione dei diritti di un gruppo di identità faccia premio sulla garanzia del confine.
Quindi di diritto alla secessione sembra possa parlarsi ogni qual volta una situazione preesistente si ponga come minaccia alla pace ed alla stabilità internazionale. Non mancano comunque coloro i quali manifestano forti dubbi circa l’esistenza di un diritto alla secessione, i quali sostengono a tal riguardo che sebbene la secessione nasca come diritto riconosciuto a gruppi di identità infrastatuali in caso di violazioni delle norme di autodeterminazione interna o gross violations of human rights, essa finisca con il “veicolare un’idea di purezza etnica come base della statualità del XXI secolo. Idea che, a tacer d’altro, è in contrasto con tutti gli sforzi compiuti dalla comunità internazionale a partire almeno dalla fine della Prima Guerra mondiale per indurre gli Stati a dare vita a ordinamenti in grado di garantire la convivenza tra identità collettive plurali. Dal 1945 in poi la comunità internazionale si è mostrata particolarmente riluttante nell’ammettere la secessione unilaterale di una parte di uno Stato indipendente se alla secessione si opponeva il Governo di quello Stato e, infatti, si è soliti ribadire come nessuno Stato dal 1945 sorto da una secessione unilaterale è stato ammesso nelle Nazioni Unite contro la dichiarata volontà del Governo dello Stato predecessore.3
La dottrina è ormai concorde nel definire l’autodeterminazione come un principio di espressione della libertà di scelta del regime politico, economico e sociale ma, soprattutto, “la libertà di accedere all’indipendenza come Stato separato oppure di distaccarsi da uno Stato per aggregarsi ad un altro. Con ogni probabilità le prime enunciazioni di detto principio possono essere ascritte alla rivoluzione americana e francese: con riferimento alla prima se ne trova una definizione nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 mentre per quanto riguarda la rivoluzione francese, sembra che riferimenti possano essere rinvenuti nella Dèclaration du droit des gens sottoposta dall’Abbè Gregoire alla Convenzione il 23 aprile 1795 (ma non approvata da questa).
Tuttavia la definizione più completa pare sia contenuta nell’Atto finale di Helsinki del 1975. Infatti, nell’ottavo dei dieci principi cui gli Stati firmatari manifestarono l’impegno all’osservanza, si legge che “Gli Stati partecipanti rispettano l’eguaglianza dei diritti dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione, operando in ogni momento in conformità ai fini e ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite e alle norme pertinenti del diritto internazionale, comprese quelle relative all’integrità territoriale degli Stati. In virtù del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, tutti i popoli hanno sempre il diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno, senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale. Gli Stati partecipanti riaffermano l’importanza universale del rispetto e dell’esercizio effettivo da parte dei popoli dei diritti eguali e dell’autodeterminazione per lo sviluppo di relazioni amichevoli fra loro come fra tutti gli Stati; essi ricordano anche l’importanza dell’eliminazione di qualsiasi forma di violazione di questo principio. Non si dimentichi come l’autodeterminazione costituisca uno degli strumenti per lo sviluppo delle relazioni amichevoli fra gli Stati, come esplicitamente enunciato nell’art. 1, par. 2 della Carta delle Nazioni Unite .
Ovviamente, destinatari dell’obbligo di rispetto dell’autodeterminazione sono i singoli Stati membri delle Nazioni Unite, che sono parimenti titolari del medesimo diritto. La Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto come il principio di autodeterminazione dei popoli abbia natura consuetudinaria, applicando lo stesso solo a situazioni di dominazione coloniale, apartheid, occupazione straniera. Assume ora rilievo capire la portata del principio di autodeterminazione dei popoli tentando di comprendere in quali casi lo stesso possa applicarsi. Il principio di autodeterminazione dei popoli deve infatti essere contemperato con le esigenze di tutela dell’integrità territoriale, al punto tale che si è pervenuti ad ammettere che qualora uno Stato si sia reso autore di una serie di gravi e massicce violazioni dei diritti dell’uomo in danno di un gruppo d’identità infrastatuale, che solitamente si accompagnano alla negazione di ogni diritto di autodeterminazione interna, le esigenze di autodeterminazione prevalgono su quelle di confine.
Quindi, a meno che non si incorra in una delle circostanze appena indicate, è del tutto evidente che le pretese di autodeterminazione con impulsi secessionisti, secondo la prassi del diritto internazionale, cedano innanzi al diritto di ogni Stato a veder rispettata la propria integrità territoriale nonché i propri confini. Di conseguenza, secondo molti, dovrebbero ritenersi illegittime rivendicazioni secessioniste laddove le medesime non siano sorrette dalla presenza di gross violations in materia di diritti dell’uomo nei confronti di un gruppo di identità infrastatuale, cui debbono aggiungersi limitazioni al diritto all’autodeterminazione interna, consistenti nella negazione di ogni forma di partecipazione politica ed al c.d. decision making process. È infatti diffusa e prevalente la convinzione che nel contrasto tra i principi appena richiamati (ovvero autodeterminazione ed integrità territoriale) non si potrà prescindere dall’ammissione dell’esistenza di un obbligo gravante su tutti gli Stati che è quello di rispettare il diritto primario degli individui che li compongono a partecipare paritariamente alle scelte politiche, economiche e sociali che riguardano la collettività nel suo complesso. Con specifico riferimento al rapporto intercorrente tra sovranità e diritto all’autodeterminazione-secessione appare doveroso citare il caso delle Aaland Islands (1921). La seconda Commission of Rappourters affermò in detta sede che “The separation of a minority from the State of which it forms part and its icorporation into another State may only be considered as an altogether exceptional solution, a last resort when the State lacks either the will or the power to enact and apply just and effective guarantees”4
Il principio di autodeterminazione, da sempre, è stato quindi ritenuto dalla maggior parte delle dottrine come una forma di espressione della libertà di scelta del regime politico, economico e sociale, ma non può disconoscersi come il medesimo vada contemperato con le esigenze di tutela dell’integrità territoriale dello Stato. Un valido titolo ad autodeterminarsi può ritenersi sussistente nelle sole ipotesi in cui un gruppo di identità infrastatuale non abbia accesso a forme di rappresentanza o venga mantenuto escluso dal decision making process all’interno dello Stato di appartenenza. Inoltre si può legittimamente invocare l’autodeterminazione in presenza di gravi violazioni dei diritti dell’uomo. Riguardo l’esistenza di un diritto alla remedial secession si può sostenere come i dubbi maturati dalla dottrina al riguardo siano più che casuali: è la stessa prassi ad aver manifestato come la tutela dell’integrità territoriale sia interesse preminente nella comunità internazionale rimanendo le ipotesi di autodeterminazione circoscritte a pochissimi casi (anche se non necessariamente riferibili al periodo coloniale).
In sintesi posso affermare che l’applicabilità del principio all’autodeterminazione incontra nei fatti molte limitazioni. Nella prassi, si è per esempio escluso di assegnare al principio di autodeterminazione effetti retroattivi tali da consentire di rimettere in discussione situazioni territoriali definite a seguito dei più importanti eventi bellici del XX secolo, poiché messo in discussione la certezza dei confini nazionali.
Ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli stati giocano sull’ambiguità, non essendo ancora disposti ad ammettere espressamente che i popoli possano essere dotati di una propria soggettività giuridica internazionale.
La Corte Suprema canadese valutando le rivendicazioni di indipendenza del Quebec rispetto al Canada, ha analizzato attentamente tale principio definendone i limiti: di esso sono autorizzati ad avvalersi ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero, e grupi socialei cui le autorità nazionali rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, sociale e culturale (Sentenza 385/1996)
La Corte Suprema di Ottawa, con una sentenza storica, ha negato alla provincia francofona il diritto di separarsi unilateralmente. Niente secessione dunque, neppure appellandosi alle leggi internazionali. Così si sono espressi i nove giudici del più alto organo della magistratura canadese rispondendo alle richieste avanzate nel 1997 dal governo federale, due anni dopo un referendum che decretò la sconfitta dei separatisti, anche se solo per una manciata di preferenze.
Per rimanere fedeli all’approccio scientifico che ho cercato di impormi nell’affrontare questo delicatissimo tema, ho proceduto a leggere l’approfondito lavoro del Prof. Daniele Amoroso dell’Università di Cagliari, intititolato “Principio di autodeterminazione e principio di nazionalità”.
Per Fichte la nascita della nazione non è altro che la libertà della stessa di esprimere la propria identità; perciò la nascita della nazione tedesca coincide con la lotta delle tribù germaniche ai Romani che tentavano di omologarle alla loro cultura e cancellarne l’identità: “Libertà significava per loro rimanere tedeschi, risolvere le proprie questioni indipendentemente e originalmente secondo il loro spirito]”. Dunque, per l’autore del Discorso alla nazione tedesca, scritto all’apice dell’egemonia napoleonica sull’Europa, popoli politicamente oppressi devono prima costruire la propria identità, difendendo il linguaggio e la storia nazionale, e poi pensare alla lotta per la libertà politica (su questo forse dovrebbero riflettere i sardi).
Per Mazzini Il significato della parola “nazione” è indissolubilmente legato all’idea delle libertà civili e dell’integrazione in una Europa di popoli liberi. La patria per Mazzini è “una comunione di liberi e di eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. La patria non è un aggregato, è un’associazione. Non v’è patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze” “La patria non è un territorio: il territorio non ne è che la base. La patria è l’idea che sorge su quello: è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio” “Prima di associarsi con le nazioni che compongono l’umanità bisogna esistere come nazione”
Per Renan”L’esistenza di una nazione è il plebiscito di ogni giorno. Ciò che fa una nazione è comunque un lascito di ricordi. Il culto degli antenati è il più legittimo di tutti, gli antenati ci hanno fatto quello che siamo”. Per Renan, l’oggetto del plebiscito quotidiano è un’eredità simbolica e materiale: appartenere a una nazione vuol dire essere erede di questo patrimonio comune, conoscerlo e onorarlo.
Un’altra fonte meritevole di attenzione l’ho invece rinvenuta nella pubblicazione intitolata Il principio di autodeterminazione dei popoli dalla fine della Prima guerra mondiale alla decolonizzazione, in cui l’autrice Marina Cataruzza, storica e accademica italiana, traccia un interessante quadro del principio di autodeterminazione dei popoli, che per la sua lucidità e capacità di sintesi non posso che riportare integralmente. I primi (falliti) tentativi di fondare un nuovo ordine mondiale che avrebbe dovuto tenere conto di principi universalmente validi sono ancora oggi attribuiti per lo più a Woodrow Wilson, che avrebbe sognato di diffondere la democrazia in tutto il mondo e di bandire definitivamente la guerra dal futuro dell’umanità, attraverso la creazione di una Società delle Nazioni. In realtà, la riorganizzazione delle relazioni internazionali fu promossa in prima battuta dai bolscevichi russi che, non appena ebbero consolidato sufficientemente il loro potere a San Pietroburgo, lanciarono un appello a «tutti i popoli in guerra e ai loro governi», con cui invitavano a porre fine immediatamente alla guerra mondiale attraverso una «pace giusta e democratica» basata sui seguenti principi: nessun risarcimento di guerra, nessuna annessione, ma il diritto di tutte le nazioni di decidere liberamente la forma della loro esistenza tutte le nazioni di decidere liberamente la forma della loro esistenza statale. Questo principio fu proclamato da Lenin nella sua accezione più ampia, includendovi anche i possessi coloniali: «Per annessione o conquista di terre straniere, il governo [bolscevico] intende – conformemente alla concezione giuridica della democrazia in generale e delle classi lavoratrici in particolare – qualsiasi annessione di un popolo piccolo o debole ad uno Stato grande o potente senza che quel popolo ne abbia espresso chiaramente, nettamente e volontariamente il consenso e il desiderio, indipendentemente dal momento in cui quest’annessione forzata è stata compiuta, indipendentemente anche dal grado di progresso o di arretratezza della nazione annessa forzatamente o forzatamente tenuta entro i confini di quello Stato e, infine, indipendentemente dal fatto che questa nazione risieda in Europa o nei lontani paesi transoceanici». Inoltre, Lenin si pronunciò a favore di un immediato e generale armistizio tra tutti i paesi belligeranti. Il 15 novembre 1917 proclamò per tutte le nazionalità presenti sul territorio del vecchio impero zarista il pieno diritto all’autodeterminazione, compreso il diritto ad abbandonare lo Stato plurinazionale e di fondarne uno proprio. Allo stesso tempo, il governo bolscevico stipulò con le potenze centrali un armistizio e avviò immediate trattative di pace. La Russia rivoluzionaria fondò quindi attraverso azioni concrete e dirette la propria politica estera su principi universalistici. Ciò includeva l’immediata pubblicazione dei trattati segreti tra l’Impero zarista e i suoi alleati nel campo dell’Intesa. Anche le trattative con le Potenze centrali a Brest-Litovsk furono condotte pubblicamente, segnando così la fine della tradizionale prassi diplomatica segreta. Con incredibile velocità, i bolscevichi misero dunque in atto una trasformazione strutturale delle relazioni interna-zionali. Nonostante la natura strumentale di queste misure, che sarebbero dovute servire solo per il fine ultimo della rivoluzione mondiale, l’azione dinamica e coerente dei rivoluzionari russi esercitò un’enorme influenza sulle masse esauste e affamate negli stati in guerra e sui movimenti anti coloniali d’oltreoceano.
Il programma di Wilson invece, formulato per la prima volta nel suo discorso sui «quattordici punti» dell’8 gennaio 1918, rappresentò una reazione all’offensiva diplomatica bolscevica. Wilson controbatté al programma di Lenin, messo in atto con radicale determinazione, con la visione di una «nuova diplomazia», la garanzia del libero accesso ai mari e del libero commercio internazionale e, non da ultimo, la fondazione di una Società delle Nazioni, con l’obiettivo di garantire alle nazioni grandi e piccole indipendenza politica e integrità territoriale.
Secondo Wilson, l’autodeterminazione implicava soprattutto la presenza di un potere decisionale pienamente democratico: immaginò un nuovo ordine internazionale che avrebbe dovuto essere sostenuto da un’alleanza di nazioni libere, rifiutando la diplomazia segreta, le corse agli armamenti e le alleanze militari. Nel caso di Wilson, l’accento era posto su una comunità di cittadini responsabili, finalizzata a garantire la dignità del singolo e soddisfare il suo desiderio di libertà. La separazione di un territorio da uno Stato non rientrava tra i principi costitutivi di tale visione, ma poteva, a seconda delle circostanze, essere accettata e promossa. Wilson considerava l’oppressione nazionale semplicemente come una delle tante manifestazioni di oppressione politica.
Per lui il principio di nazionalità era chiaramente sussidiario rispetto al principio fondamentale della sovranità popolare e all’aspirazione a creare un ordine mondiale democratico.
È significativo che il termine «autodeterminazione» non sia stato pronunciato nel famoso discorso sui «quattordici punti» dell’8 gennaio. Wilson introdusse questa formulazione un mese dopo, nel suo discorso davanti al Congresso americano dell’11 febbraio 1918, quando dichiarò solennemente: «Self-determination is not a mere phrase. It is an imperative principle of action, which statesmen will henceforth ignore at their peril»
È noto che nell’ultima fase della Prima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra furono poste le basi per una radicale riorganizzazione delle relazioni internazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale tale riorganizzazione sfociò nella costituzione delle Nazioni Unite e nella proclamazione della Carta dei diritti umani. In questo breve contributo, mi soffermerò in particolare sulle prime formulazioni e realizzazioni del diritto all’autodeterminazione dei popoli e sulle sue successive applicazioni. Il diritto all’autodeterminazione è stato incluso nella Carta delle Nazioni Unite e codificato nel 1966 (in concomitanza con i processi di indipendenza nazionale estesisi allora a macchia d’olio nei territori coloniali) come diritto fondamentale universalmente valido. Esso fu codificato quasi contemporaneamente in due patti internazionali sui diritti umani nei termini seguenti: «tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente il proprio status politico e dispongono liberamente del proprio sviluppo economico, sociale e culturale».
Nei trattati di pace alla fine della Prima guerra mondiale il diritto all’autodeterminazione si applicava solo agli Stati vittoriosi e alle nazioni titolari degli Stati successori degli imperi plurinazionali. Come è stato opportunamente sottolineato da Jörg Fisch, il diritto del vincitore non aveva cessato di esistere solo perché era stata proclamata l’alba di una nuova era.
La dissoluzione (o, più precisamente) la distruzione degli imperi multietnici condusse in Europa alla rinascita di numerosi nuovi stati: Polonia, Jugoslavia, Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia e Cecoslovacchia. La Romania godette di una notevole espansione, raddoppiando il proprio territorio e addirittura triplicando la popolazione. In seguito a ciò essa cessò, però, di essere uno Stato nazionale omogeneo, in quanto, a seguito dei trattati di pace inglobò tre milioni di persone che si consideravano non rumeni (ungheresi, tedeschi, serbi, bulgari, ecc.). Austria e Ungheria furono ridotte a spezzoni di quello che erano state precedentemente. L’Italia ottenne una notevole espansione territoriale, che però non soddisfò le aspettative della leadership politica nazionalista e dell’opinione pubblica. Come è noto, la Germania subì notevoli perdite territoriali e di popolazione. Un terzo della popolazione della Polonia non era polacca (ucraini, tedeschi, ebrei, bielorussi). In Cecoslovacchia i cechi rappresentavano solo il 50% della popolazione. Gli altri erano tedeschi, slovacchi, polacchi e ungheresi
Come già accennato, la popolazione rumena era composta per il 28% da minoranze nazionali e la Jugoslavia non era meno di un mosaico di popoli di quanto lo fosse stata la vecchia monarchia asburgica.
Non si può non concordare con lo storico ungherese István Deák quando, a conclusione della sua monografia sugli ufficiali dell’esercito austro-ungarico, afferma che gli Stati successori emersi dalla Prima guerra mondiale testimoniavano il fallimento sia dei programmi di Lenin che di quelli di Wilson. Nessuno di questi Stati era socialista e nessuno si basava realmente sul principio dell’autodeterminazione. La maggior parte degli Stati successori non era meno multietnica della monarchia asburgica. Tuttavia, a differenza di questa, essi non perseguivano una politica di tolleranza etnica, poiché si consideravano (erroneamente) degli stati-nazione. Secondo Hannah Arendt, alla fine della Prima guerra mondiale sembrava che la liquidazione dell’Impero asburgico fosse servita solo allo scopo di mettere in atto esperimenti in miniatura altrettanto multietnici, il che naturalmente, aggiunse, aggravò notevolmente i problemi.
Dopo che gli Stati Uniti si erano rifiutati di aderire alla Società delle Nazioni, il suo fallimento era inevitabile. La Germania ne fu membro solo dal 1926 al 1933, l’Unione Sovietica dal 1935 al 1940. Inoltre, mancava un organo di governance come il Consiglio di sicurezza dell’ONU, che tenesse conto dei reali rapporti di forza internazionali. Rimane tuttavia dubbio se persino una Società delle Nazioni dotata di strutture più adeguate sarebbe stata in grado di disinnescare le massicce tensioni internazionali accumulatesi in seguito ai trattati di pace. Lo slogan dell’autodeterminazione dei popoli fu impiegato nel periodo tra le due guerre dagli sconfitti della Prima guerra mondiale come argomento per promuovere una politica di revisione dei confini, più o meno radicale. Proclamando solennemente il diritto all’autodeterminazione, le potenze vincitrici vennero a trovarsi in una sorta di «impellenza di legittimazione», in considerazione dei numerosi casi in cui le sistemazioni territoriali erano state imposte contro l’esplicita volontà delle popolazioni interessate. Come ha rilevato in modo convincente lo storico zurighese Jörg Fisch, ai protagonisti politici delle conferenze di pace a Parigi era sfuggito che il richiamo al principio di autodeterminazione avrebbe rimesso in discussione, sul lungo periodo, il tradizionale diritto di preda del vincitore o, almeno, avrebbe finito per corredarlo di una buona dose di «cattiva coscienza». Adolf Hitler fu il politico che seppe utilizzare al meglio il diritto all’autodeterminazione per la sua politica revisionista tra le due guerre mondiali, per poi calpestarlo nel corso della realizzazione dell’espansione tedesca in Europa orientale. Nel 1938 Hitler invocava spesso il diritto all’autodeterminazione, soprattutto nei confronti dell’Austria e dei territori dei Sudeti. Significativamente, l’invasione dell’Austria da parte della Wehrmacht, il 12 marzo 1938, avvenne senza reazioni di rilievo da parte della diplomazia internazionale.
Alla vigilia della Conferenza di Monaco e anche durante la fase decisiva della crisi tedesco-polacca (dalla primavera del 1939), Hitler affermò ripetutamente che la Germania era tenuta a proteggere i propri compatrioti perseguitati all’estero e privati del diritto all’autodeterminazione. Il 12 settembre 1938, Hitler concluse il suo discorso alla conferenza del partito a Norimberga con l’affermazione – certo esagerata – relativa ai tedeschi in Cecoslovacchia: «se queste creature martoriate non riescono a trovare giustizia e aiuto, riceveranno da noi entrambe le cose. La privazione dei diritti per queste persone deve finire»26!
Tali argomentazioni, che miravano a una revisione dei confini secondo il principio dell’autodeterminazione nazionale, incontrarono, in particolare, l’approvazione del governo britannico. L’atteggiamento benevolo del Primo ministro britannico Neville Chamberlain nei confronti delle rivendicazioni tedesche verso la Cecoslovacchia è ben noto. Lo storico statunitense Richard Blanke afferma che Hitler, anche poco prima dell’attacco alla Polonia, soste-neva che era necessario proteggere la minoranza tedesca. Blanke conclude lapidario: «Hitler citava il maltrattamento della minoranza tedesca come giustificazione per il suo attacco alla Polonia nel 1939, e quindi, di fatto, per lo scoppio della Seconda guerra mondiale».
Tali esperienze indussero le Nazioni Unite (fondamentalmente le potenze vittoriose della Seconda guerra mondiale) a fare inizialmente un uso molto cauto del principio dell’autodeterminazione dei popoli. La Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite fu adottata solo nel 1948, dopo che si era già verificata nell’Europa centrale e orientale la più gigantesca pulizia etnica della storia, condotta, in parte, con mezzi estremamente violenti e di cui fu vittima, in primo luogo, la popolazione tedesca. Le grandi potenze manifestavano apertamente al riguardo il loro disinteresse, tollerando senza obiezioni una pulizia etnica che coinvolse circa 18 milioni di persone (nel caso dei britannici e dei sovietici, ci fu invece un sostegno attivo alle espulsioni).
Il principio di autodeterminazione riguadagnò popolarità quando, a partire dagli anni ‘60, i movimenti indipendentisti delle colonie (soprattutto in Africa e Asia orientale) misero fine a una situazione che la maggioranza dell’opinione pubblica riteneva ormai insostenibile. Oggi, il diritto all’autodeterminazione nazionale è invocato principalmente in Europa da movimenti separatisti che lottano per un proprio Stato (l’esempio più recente è dato dalla Catalogna). Anche in questi casi, l’aporia esistente tra il principio di autodeterminazione, che dal 1966 è un diritto fondamentale codificato, e i principi altrettanto legittimi dell’integrità territoriale degli Stati sovrani o della garanzia di stabilità internazionale, si manifesta in tutta la sua complessità. Si può quindi presumere con ragionevole certezza che l’applicazione (o il diniego) di questo diritto fondamentale continueranno a dipendere da tali antiquati fattori come, per esempio, gli effettivi rapporti di forza tra gli Stati, l’atteggiamento delle grandi potenze e le variabili geopolitiche. (Marina Cattuzza – The Principle of Self-determination of Peoples from the End of First World War to Decolonization)
E’ il caso ora i attingere ancora e a piene mani dal materiale disponibile sull’argomento nel sito dell’Università di Cagliar. Da subito e egli sottolinea la mancata inclusione del principio di autodeterminazione nel Patto della Società delle Nazioni del 28 giugno 1919, a conferma della cautela con la quale l’argomento doveva essere trattato, considera il principio di natura eminentemente politica, tuttavia emerge una tendenza alla protezione delle minoranze garantita dal diritto internazionale. La secessione della minoranza è vista solamente come extrema ratio in caso di oppressione (cd. remedial secession)
e si sottolinea la portata oggettiva della tutela offerta dalle norme in tema di autodeterminazione dei popoli oltre che Il parere della Corte internazionale di giustizia sul caso della Cisgiordania con l’applicazione del principio del non riconoscimento. La sanzione del non-riconoscimento nella prassi ha riguardato l’occupazione israeliana dei territori palestinesi (Risoluzione del Consiglio di sicurezza 2334(2016). In questo caso la Corte Internazionale chiede a tutti gli Stati membri di distinguere, nei rapporti rilevanti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967. Ancora da segnalare come in una nota interpretativa della Commissione UE sull’ indicazione di origine delle merci provenienti dai territori occupati da Israele dal giugno 1967 si legge che “dal momento che la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) non fa parte del territorio israeliano secondo il diritto internazionale, l’indicazione “prodotto da Israele” è considerata scorretta e fuorviante. Come si può desumere continuano ad emergere ed a prevalere posizioni molto conservative e poco aperte ai nazionalismi.
Matteo Zola 20 Novembre 2015
Un altro approccio, questa volta eminentemente politico e meno rigoroso, è quello rinvenibile in alcuni siti internet ed in parrticolare mi ha colpito un articolo dal titolo “Cos’è il diritto all’autodeterminazione? L’articolo cita La Catalogna, la Scozia, la Crimea, il Kosovo, la Cecenia, persino la Padania, in questi e in altri casi – scrive – si sente sempre più spesso parlare di “autodeterminazione dei popoli”, e quasi mai in modo corretto (sostiene l’autore)
La vulgata, sovente propalata da parolai e politicanti, vuole che ogni popolo di questa terra abbia il diritto di proclamare la propria indipendenza o autonomia politica, secedendo da uno stato e magari annettendosi a un altro. Non è proprio come ce la raccontano.
L’autodeterminazione dei popoli è normata dal diritto internazionale e a questo dobbiamo guardare se vogliamo comprendere quando tale principio si applica. Ebbene, il diritto internazionale prevede che l’integrità territoriale sia prevalente rispetto al diritto all’autodeterminazione, quindi una popolazione non ha diritto ad autodeterminarsi se questo mette in discussione l’integrità dello stato di cui la popolazione in questione fa parte. Questo è il primo e fondamentale punto da cui partire.
Si distingue inoltre tra una autodeterminazione interna, non contemplata dal diritto internazionale, che consiste nella partecipazione al governo dello stato, tanto a livello centrale quanto tramite autonomie locali; ed una autodeterminazione esterna, che consiste nella libera determinazione dello statuto internazionale della propria entità politica – ad esempio tramite associazione ad un altro stato, o tramite indipendenza, previa consultazione della popolazione. Di quest’ultima si parla quando generalmente ci si riferisce al concetto di autodeterminazione. Vediamo come funziona.
Il diritto all’autodeterminazione esterna si applica solo in presenza di precisi elementi, ovvero che una popolazione sia soggetta a dominazione straniera, apartheid o a regime coloniale. In questi casi si tratta di un principio inderogabile (ius cogens), supremo e irrinunciabile del diritto internazionale. Si evince dunque come tale principio sia stato elaborato per dare una veste legale alla decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli è stato infatti affermato per la prima volta nella Carta Atlantica (14 agosto 1941), è stato poi sancito dall’Onu (art.1 par. 2 e dagli artt. 55 e 56) ma è solo con la Dichiarazione dell’Assemblea generale sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960) che trova una sua precisa definizione. Esso è quindi inadatto a normare i casi di secessione unilaterale o le molte rivendicazioni da parte delle minoranze etniche che si sono succedute negli ultimi anni, e andrebbe forse riformato. Tuttavia occorre guardare al diritto per come è oggi, e non per come si ritiene debba essere, al fine di capire quando e come viene applicato.
Veniamo a un terzo aspetto importante. Secondo l’attuale formulazione, i popoli non sono titolari di un diritto all’autodeterminazione, tale diritto è infatti degli stati. Anzi, il diritto internazionale non offre nemmeno una definizione di cosa sia un “popolo”. Si afferma dunque che ad avere diritto all’autodeterminazione esterna è l’intera popolazione residente in un’area predefinita, non solo una parte di essa, pena l’infinita frammentazione. E’ la comunità degli stati a doverlo riconoscere se sussistono le condizioni di cui sopra: dominazione, colonizzazione, apartheid. Un popolo non può dunque dichiarare unilateralmente la propria autodeterminazione, se lo fa compie un atto illegale. Soprattutto se tale “popolo” vive all’interno di uno stato democratico, in mancanza cioè di una seria condizione di oppressione.
L’autodeterminazione può realizzarsi consentendo l’annessione a un paese vicino o l’indipendenza del nuovo stato. Tale autodeterminazione si dice “esterna”, perché consentita e riconosciuta dall’esterno, cioè dagli altri paesi. Abbiamo già detto che esiste poi una “autodeterminazione interna”, che non è però riconosciuta dal diritto internazionale, in base alla quale i popoli possono liberamente scegliere la propria forma di governo. Per le ragioni spiegate sopra, l’autodeterminazione interna resta una rivendicazione che non trova riscontro nel diritto internazionale, anche perché potrebbe portare a casi di secessione ma la secessione contravviene al diritto principe, ovvero l’integrità territoriale dello stato.
Ora facciamo qualche esempio concreto. La Catalogna, ad esempio, non ha diritto ad autodeterminarsi. Per questo chiede con insistenza che il governo spagnolo consenta ai catalani di organizzare un referendum sull’indipendenza. Solo così l’eventuale indipendenza avrebbe la necessaria veste legale e potrebbe essere riconosciuta dagli altri paesi. E’ quanto avvenuto in Scozia, dove si è tenuto un referendum sull’indipendenza del paese a seguito del consenso di Londra.
In caso in cui si proceda con una dichiarazione di indipendenza unilaterale, questa sarebbe ritenuta illegale dalla comunità internazionale e il governo centrale sarebbe legittimato a intervenire anche militarmente. E’ quanto avvenuto in Cecenia. Il caso ceceno è assai più interessante dei due precedenti. Nel 1991 la Cecenia ottenne l’autonomia fiscale e amministrativa, tuttavia i leader nazionali non ritirarono la dichiarazione di indipendenza. Essi affermavano infatti di avere diritto all’autodeterminazione poiché, durante il regime sovietico, i ceceni avevano vissuto in stato di apartheid. Si riferivano soprattutto alla deportazione, organizzata dai bolscevichi nel 1944, e al fatto che nella successiva Repubblica sovietica autonoma ceceno-inguscia (che comprendeva cioè un territorio nel quale erano presenti sia ceceni che ingusci) i ceceni non avevano mai ottenuto ruoli politici di rilievo. Ebbene, dal punto di vista del diritto internazionale non era abbastanza: una volta ottenuta l’autonomia amministrativa e fiscale, veniva meno la necessità dell’indipendenza e si applicava il principio della sovranità territoriale. La dichiarazione di indipendenza cecena non fu riconosciuta da nessun paese al mondo e portò al legittimo – per quanto brutale – intervento militare russo. A pesare era anche lo status giuridico della Cecenia che, parte della repubblica autonoma sovietica ceceno-inguscia, non godeva degli stessi diritti delle più grandi repubbliche socialiste sovietiche di Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan, Lettonia, e altre, che avevano invece il diritto costituzionale di separarsi dall’URSS in base proprio a quanto scritto nella costituzione sovietica.
Il caso del Kosovo presenta alcune somiglianze con quello ceceno. Il Kosovo era una provincia autonoma all’interno della Repubblica Socialista Serba, a sua volta membro della Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Quando il governo serbo decise di abolire l’autonomia del Kosovo e vietare l’uso della lingua in ambito ufficiale, chiudendo persino le scuole in albanese, i kosovari si trovarono vittime di un regime di apartheid. Essi avevano dunque il diritto a vedere restaurata la propria autonomia. In tal senso, la loro autodeterminazione era legale finché perseguiva il ristabilimento della perduta autonomia. Il collasso della Jugoslavia -stato di cui formalmente facevano parte- unitamente all’intervento militare di potenze straniere, ha reso possibile l’indipendenza. Tuttavia tale indipendenza è illegale – in quanto il Kosovo avrebbe avuto diritto a restaurare una propria autonomia in seno alla Serbia, ma non all’indipendenza. Tuttavia questa illegalità è stata comunque produttiva di un nuovo stato, successivamente riconosciuto da circa metà della comunità internazionale.
Il caso kosovaro è spesso usato come pietra di paragone dalle autorità russe nel caso della Crimea e del Donbass. Si tratta infatti del caso più recente in cui uno stato si è visto riconoscere la propria indipendenza malgrado questa fosse illegale. E’ ritenuto da molti un precedente che mina alle basi la tenuta del diritto internazionale in tema di autodeterminazione. A questo precedente si rifanno i russi nel caso della Crimea. Ci sono però delle differenze.
La Crimea aveva una forma di autonomia simile a quella che in Italia ha, per esempio, la Valle d’Aosta, non paragonabile cioè a quella di cui godeva il Kosovo. L’Ucraina infatti non era una repubblica federale, come non lo è l’Italia, e come invece era la Jugoslavia. Tale autonomia, inoltre, non è mai stata abolita dal governo di Kiev, come invece Belgrado fece con Pristina. I russofoni di Crimea non hanno mai subito nella loro storia passata o recente alcuna discriminazione, anzi la loro lingua è sempre stata (e lo è ancora) l’unica lingua paritaria e ufficiale del paese accanto all’ucraino. La loro autodeterminazione, ponendo che di questo si sia trattato, non ha nessun fondamento giuridico: non c’era un’autonomia da restaurare, non c’era un regime di apartheid. L’annessione alla Russia è quindi anch’essa illegale in quanto viola la sovranità e l’integrità territoriale dello stato ucraino. Una ulteriore criticità sta nel fatto che la Russia è intervenuta militarmente in Crimea, seppur con soldati senza mostrine, profilando quindi persino il caso di invasione di un paese sovrano. Non è da escludere che, in futuro, la comunità internazionale accetti il dato di fatto, ovvero l’annessione alla Russia, nuovamente piegando il diritto alle contingenze, in nome del realismo politico. Sarebbe tuttavia una riprova di come tale diritto, per come è oggi formulato, sia insufficiente a normare le situazioni del mondo contemporaneo.
II russofoni del Donbass, o di altre aree, non hanno nemmeno quella – seppur minima – autonomia territoriale di cui godeva la Crimea. E nemmeno loro sono mai stati vittima di un regime di apartheid né la loro lingua o la loro fede è stata vietata. Quindi, in punto di diritto, non hanno nessun diritto all’autodeterminazione.
E i padani? Beh, quelli nemmeno esistono, non hanno una lingua comune, non hanno nessuna forma di autonomia e soprattutto, vivendo nelle regioni più ricche del paese, non soffrono certo di discriminazione o “apartheid”. Nel loro caso, più che di autodeterminazione, si tratta di egoismo.
Ho riportato integralmente questo contenuto perchè esprime molto fedelmente la posizione e le argomentazioni dominanti sul tema dell’autodeterminazione dei popoli ed il suo rapporto con il diritto alla secessione.
Anche Daniele Paolanti in La secessione e il diritto di autodeterminazione dei popoli pubblicazione diritto.it fondata da Francesco Brugaletta assume una posizione rigida sull’argomento. Vedi
http://www.geopoliticalcenter.com/attualita/il-principio-di-autodeterminazione-dei-popoli-nel-diritto-internazionale/ “Autodeterminazione dei popoli”. Di seguito riporto il testo:
Menzionato nell’art.1 paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite (1945), esso costituisce un principio di diritto internazionale politicamente strumentalizzato e spesso erroneamente impiegato. Considerato acquisito sul piano consuetudinario, il suo contenuto normativo è il frutto di contributi giurisprudenziali e prassi successive. La proliferazione, l’affermazione e la conseguente accettazione da parte della comunità internazionale di qualsivoglia istanza autonomista e rivendicazione secessionista non prescinde da suddetto istituto dell’autodeterminazione quale suprema fonte di legittimazione; il tutto, mosso specificatamente da minoranze o comunità dalle distinte conformità caratteristiche facenti parte di realtà statuali multietniche e plurilinguistiche. Questo è esattamente ciò che è avvenuto, concernente il continente europeo, per la Scozia in passato ed è ciò che avviene per pretese indipendentiste della Catalogna oggigiorno.
Eccezion fatta, storicamente, all’ambito nel quale l’istituto fu pensato e per il quale trovò diretta applicazione – grazie all’Assemblea Generale ONU – quello della decolonizzazione, il principio era da applicarsi alle relazioni internazionali tra stati sovrani; l’autodeterminazione non può derogare un altro fondamentale principio del diritto internazionale, relativo all’integrità territoriale degli Stati, e non può di conseguenza esser chiamato in causa impropriamente per rivendicazioni da parte di comunità dalla pur evidente connotazione identitaria.
Un’altra interessante fonte è rappresentata dalla tesi di laurea dal titolo “Aspetti evolutivi del principio dell’autodeterminazione dei popoli” di Lorenzo Sanna, Tesi di Laurea 2015, in cui si legge, tra l’altro, che “è’ inevitabile chiedersi a questo punto quale deve essere il ruolo del principio di autodeterminazione dei popoli e verificare se vi sia ancora spazio per esso nella realtà contemporanea. Infatti,vi è il rischio che il principio in esame venga ad essere soppiantato da un lettura del diritto internazionale che,come dicevamo, tende a privilegiare inevitabilmente gli stati già costituiti a scapito dei diritti dei popoli e dei singoli individui. Tanto più in un contesto nel quale la pace e la sicurezza nei rapporti internazionali sono ormai divenuti valori prioritari e irrinunciabili per la convivenza tra gli stati,e nel quale perciò si tende a scoraggiare l’esercizio del nostro diritto. In particolar modo,se esso deve essere concepito prevalentemente nella sua versione esterna e di extrema ratio rappresentata dalla secessione. Inoltre,deve essere tenuta presente l’inopportunità che il diritto lasci campo libero a opzioni ed azioni che poco hanno di giuridico e che invece molto spesso nascondono forzature ideologiche e strumentalità politiche. D’altro canto,i rischi che un indiscriminato e non selettivo riconoscimento dell’autodeterminazione comporterebbe per la relativa situazione di stabilità ormai raggiunta dal nostro pianeta non possono consentirci di passare sotto silenzio le formulazioni che del nostro principio sono contenute nelle varie fonti internazionali e che assegnano ad esso un valore universale. Né è possibile mettere il silenziatore alle voci e ai lamenti che in tante parti del globo si levano contro le discriminazioni e le violenze che vengono perpetrate contro le minoranze etniche religiose e culturali,e consentire che i gruppi dominanti sotto il pretesto del carattere interno della questione persistano in atteggiamenti illiberali e contrari ai più elementari principi di ogni civiltà.
Chiudo l’elenco delle fonti citando le “Pubblicazioni Centro Studi per la Pace www.studiperlapace.it, in cui si scrive: “Conviene dunque concentrarsi sul carattere dinamico o, come anche si è detto, sulla “virtualità permanente” del principio in esame per delinerarne l’itinerario futuro senza per questo infrangere altri valori. Sotto questo profilo,l’autodeterminazione è in grado,per sua stessa natura,di assolvere alla funzione che gli architetti,nelle loro elaborazioni,assegnano alle “ammorsature”,cioè a quelle pietre o mattoni che si lasciano sporgenti in un muro esterno,per poter eventualmente continuare la costruzione. Fu un illustre giurista ad utilizzare questa similitudine per notare come una buona norma o un buon principio,per poter resistere all’ “intemperie del tempo”,non devono fossilizzarsi o mummificarsi con il passare del tempo,ma devono essere aperti a nuove esperienze e prospettive di evoluzione. Se dunque tale suo carattere ha consentito di estendere progressivamente l’ambito di operatività dell’autodeterminazione e di allargare i benefici della sua applicazione a ipotesi diverse e ulteriori rispetto a quella originaria dei popoli sottoposti a dominio coloniale,è proprio facendo leva su di esso che è possibile credere ancora oggi nella sua effettività e continuare ad attribuirgli valore nella moderna società internazionale. Insomma,va posto l’accento sulla dimensione interna del nostro principio,e così valorizzarne i risvolti politici economici sociali e culturali sui quali ancora vi sono ancora tanti spazi per una piena e completa espressione delle sue potenzialità.
L’argomento, che ho cercato di approfondire attingendo dalle fonti se non più attendibili comunque capaci di manifestare le posizioni sul campo, è estremamente ostico e complesso, ma soprattutto mi pare di poter affermare che di fatto viene oggi affrontato dalla cultura prevalente (corrispondente ovviamente allo status quo ed alla sua conseguente e strenue difesa) dagli stati nazionali dominanti facendo prevalere quella visione politica che fatica a riconoscere, per non dire nega, la sussistenza di un diritto delle minoranze a rivendicare un proprio diritto all’autodeterminazione attraverso azioni di secessione o comunque di forte indipendenza dagli stati centrali già esistenti e già riconosciuti dalla comunità internazionale. Dobbiamo, insomma, prendere atto che esiste un problema storico contemporaneo di tipo culturale che di fatto costituisce, in nome di supposti principi di difesa della pace mondiale, un muro invalicabile alle aspirazioni di indipendenza ed autodeterminazione di quei popoli che, in passato, non abbiano avuto la fortuna storica di partecipare attivamente ed autonomamente alla formazione di un proprio stato nazionale. E’ in questa cornice di leggi, regole e posizioni che dobbiamo inquadrare, in futuri articoli, la questione sarda.
Come ho scritto all’inizio del mio articolo, l’argomento è affrontato solo ed esclusivamente sotto il profilo del diritto internazionale al fine di comprendere in quali casi possiamo indicare come esistenti i presupposti giuridici per la formazione di una nuova entità statuale. Ciò che emerge, ancora, è che la formazione di una nuova entità statuale non è mai la conseguenza dell’applicazione di una o più norme giuridiche e nemmeno di uno o più principi e nemmeno si può arrivare a parlare di prassi. Per quanto ci si sforzi il nodo della questione è sempre e solo politico e i pronunciamenti ed i comportamenti di organismi e Stati sull’argomento sono sempre stati la risposta specifica a situazioni specifiche con l’obiettivo di soddisfare primariamente la necessità di evitare o far cessare gravi conflitti tra stati o all’interno degli stati e quasi sempre per sostenere concomitanti interessi economici, mascherati spessissimo da un apparente sensibilità sui diritti umani.
Un riflessione che mi sento di fare è che, alla luce degli elementi a disposizione, mi pare di poter affermare che la partita delle autonomie nazionali si giochi preminentemente sul piano interno agli Stati, soprattutto con riferimento a realtà evolute come quelle europee.
Il presente articolo è ancora in bozza e, a causa della complessità dei contenuti, è soggetto ad ulteriori modifiche ed integrazioni.